iPhone batte “Zio Ho”

Mercato batte ideologia. A cinquant’anni dalla riunificazione, il Vietnam si è progressivamente avvicinato al modello di sviluppo cinese, dunque accettando di buon grado il libero mercato, pur mantenendo la struttura di governo a partito unico.

«Viviamo alla giornata: abbiamo un certo numero fisso di ragazzi che frequenta la nostra scuola ma molti altri vanno e vengono». A parlare è il direttore del Sapa hope village (Il villaggio della speranza di Sapa), Phero Thuong. Nome complicato da pronunciare per un occidentale: è per questo che il maestro, direttore e proprietario del progetto si presenta come Peter (Pietro) perché da molto tempo ha abbracciato il cattolicesimo, traducendo così il suo nome vietnamita. 
Ogni volta che si entra nel territorio di una piccola comunità (sia essa rurale o cittadina) si viene accolti da una grande struttura posta come ideale porta d’ingresso che recita (in vietnamita e nel dialetto locale): «Avanziamo progredendo nell’inclusione di tutte le minoranze». Attorno alla città di Sapa (situata a quaranta chilometri dal confine cinese, parte del distretto di Lao Cai) quest’assunto non viene molto rispettato. Ragazze e ragazzi orfani delle minoranze Dzao e H’Mong sono totalmente esclusi dal sistema scolastico statale che, seppur capillare, non riesce ad assicurare loro la necessaria educazione. Esclusi due volte.
Peter si è prefissato un obiettivo titanico: contrastare la dispersione e l’abbandono scolastico degli orfani che popolano i villaggi intorno a Sapa. Lo spazio (di sua proprietà) potrebbe definirsi a metà tra un doposcuola e un laboratorio per i ragazzi più grandi (con posti letto al piano superiore per chi abita lontano, non può tornare a casa o non ce l’ha proprio) ed è sostenuta interamente dalla volontà, dalla forza d’animo e dai suoi finanziamenti. Pochi, per la verità. L’aula è unica, divisa a metà tra i ragazzi più piccoli (seduti su sedie malferme) e quelli più grandi (dediti ad altre attività). Di fronte a loro un grosso un braciere sempre acceso ha su una pentola piena d’acqua a riscaldare: il tè per gli ospiti, o per chi altro verrà, non si può rifiutare. Si entra calpestando la terra (pavimento assente) e gli spazi sono piuttosto angusti. Nel retro del locale, però, c’è un’area tutta nuova: lo spazio per i potenziali volontari. Al momento non ce ne sono: «gli unici che, di tanto in tanto, trascorrono una parte dell’estate con noi provengono da Malesia, Singapore o Filippine», afferma sconsolato Peter nel suo inglese-vietnamita.
Il progetto non ha collegamenti con associazioni od Ong internazionali e “il villaggio” rimane isolato.

Non è isolata, al contrario, la città di Sapa, situata a pochi chilometri dalla scuola-laboratorio di Peter: una delle più turistiche del nord del Vietnam. Piena di visitatori occidentali, meta di primo approdo per coloro che vogliono esplorare i sentieri delle montagne lì attorno, rappresenta il crogiolo delle contraddizioni del paese: stride l’insieme caotico di bandiere rosse con la stella gialla (alternate a quelle del partito) di fianco a locali sfavillanti, ristoranti stracolmi di cibo occidentale e trappole per turisti. Le imponenti strutture governative e del Partito comunista si ergono tronfie di fronte alla sfrontatezza dei marchi del capitalismo che avanzano col placet del politburo. Così come ad Hanoi, anche a Sapa (e nella maggior parte delle città del paese), le bandiere sono affisse ad ogni lampione di ciascuna strada, ogni giorno dell’anno.
 
Da tempo il Vietnam sta abbracciando il modello cinese: la Cina non è solo un punto di riferimento politico ma anche di organizzazione sociale. Il marxismo-leninismo vietnamita significa semplicemente “democrazia a partito unico”. Dunque: forte controllo statale e pianificazione economica ma anche libero mercato e libero accesso ad internet. Allo stesso modo i pagamenti possono essere effettuati elettronicamente con QrCode (o con carte Visa) anche nei mercati più lontani dalle città. La moneta locale soffre la svalutazione e il cambio Euro/Dong (1 euro vale circa 29.000 Dong) assomiglia alle immagini del Marco durante la Repubblica di Weimar sui libri di scuola. A Sapa estrema ricchezza ed estrema povertà si incontrano prendendo un taxi oppure girando per le strade in cui donne e bambini di varie etnie ballano per pochi Dong mentre vengono filmate da avidi turisti (che poi posteranno quei video su TikTok generando, sicuramente, il triplo del profitto). 
 
Allo stesso modo ad Ho Chi Minh City, già Saigon, ex fortezza statunitense del sud, la musica non cambia. Anzi, peggiora. Grattacieli, vetrine di Dior, Tiffany, H&M, fast food, gioiellerie costosissime e negozi d’alta moda abbracciano le grandi arterie che portano al centro della città, nella fu zona vecchia, ora una delle più ricche del sud. Gli statunitensi hanno perso la guerra cinquantanni fa e tutto il paese è in festa: la riunificazione è motivo di unione patriottica della nazione riconciliata da chi aveva messo i vietnamiti l’uno contro l’altro (prima la Francia, poi gli Usa) ma è anche l’occasione per guardare ancora più criticamente il doppio volto del sistema che regge il Vietnam. 
 Il mercato ha battuto ogni ideologia. Gli iPhone hanno sostituito il motto della rivoluzione che recitava: «mangia la metà, lavora il doppio per raggiungere gli obiettivi dello zio Ho». TikTok, Instagram e mille altre piattaforme hanno mutato alla radice la consapevolezza della nazione. Le immagini di Ho Chi Minh sono, ormai, sovrastate dai centri commerciali in stile occidentale.

Pubblicato su L’Eco di Bergamo del 16 giugno 2025 

Liceo del Made in Italy, un progetto nato per il compiacimento di un capitalismo agonizzante

Che le parole di Giorgia Meloni sul liceo Made in Italy siano state una boutade lo hanno pensato in tanti. Che, però, ci fosse un disegno di legge delega depositato al Senato della Repubblica il 25 gennaio di quest’anno in pochi lo sapevano (qui il testo completo). Il documento è stato presentato dalla senatrice di Fratelli d’Italia Carmela Bucalo: 

«L’obiettivo – ha spiegato Bucalo all’ANSA il 3 aprile subito dopo la dichiarazione di Meloni al Vinitaly – è creare figure specialistiche che permettano di avere un patrimonio culturale sia in campo giuridico che tecnico per avere professionisti altamente specializzati. Quello attuale è un mercato sempre più in evoluzione, risentiamo dell’agguerrita concorrenza della Cina e dobbiamo salvaguardare le piccole imprese e tutelare i prodotti del Made in Italy».

Una caratterizzazione linguistica inglese che va a compiacere la percezione che ha dell’Italia un capitalismo agonizzante ma a cui il governo tiene tantissimo. Alla faccia della cultura e della tradizione. 

«Abbiamo percorsi di studio molto lunghi e il mondo del lavoro richiede invece una formazione che si adatti velocemente ai cambiamenti che richiede il mercato» ha proseguito Carmela Bucalo nell’intervista rilasciata all’agenzia ANSA. 

L’ottica “mercatista” in cui si muoverebbe l’esecutivo per creare questo nuovo indirizzo di studi fornisce,  qualora ce ne fosse ancora il bisogno, l’immagine chiara dell’indirizzo del capitalismo nazionale riguardo la scuola e l’istruzione: formare giovani non si traduce nell’abituarli ad un lavoro di crescita e di critica, di approfondimento e di formazione del senso critico bensì progettare “unità di produzione” da poter impiegare nel mondo del lavoro (mercato, pardon) nel più breve tempo possibile. 
La scuola diventerebbe, così, una sorta di “grande parcheggio in attesa del diploma” che sarà poi il vettore per poter accedere ad un mercato del lavoro in cui è sempre più ossessivamente (e spesso strumentalmente) richiesta professionalità e competenza certificata (da enti privati e che costano un sacco di soldi).
Se non la si ha, può andar bene la condizione semi-schiavile dei lavoratori agricoli o della ristorazione. A proposito di made in Italy. Reiterando, o giocando a farlo, il ritornello per cui una scuola ad indirizzo tecnico porti in dote più sbocchi lavorativi agli studenti di un liceo classico. Inutile, peraltro, l’indirizzo umanistico, per costoro. “Storia, filosofia, latino e greco: jamais!”.

Una sorta di bicefalismo, quello riservato al Made in Italy che farebbe bene solo a chi può trarre profitto di manodopera a basso costo e non certo a studentesse e studenti che si approcciano ad un percorso di studi in età adolescenziale. 
E poi, il mio preferito, il riferimento al “colmare il vuoto che c’era nell’offerta scolastica italiana”. 
La fragolina di bosco sulla torta mimosa colma di menzogne. 

Per chi ha stomaco forte, di seguito si inseriscono stralci dal Ddl sul progetto del “liceo del made in Italy”, ricordando che il testo completo è alla terza riga del post:

 
Occorre puntare su studi quali la storia dell’arte, base della coscienza del nostro passato artistico,
puntando con sguardo critico alla geografia, in particolare economica della nostra Italia, per la
cognizione dei comparti produttivi e per le zone di provenienza.
La carenza strutturale di competitività e i cambiamenti radicali nelle attività politiche ed economiche
globali, dovuti al fatto che le Nazioni emergenti stanno offrendo importanti opportunità di sviluppo e,
in alcuni casi, performance al di fuori del normale, hanno sollevato una significativa preoccupazione
circa la capacità dell’economia italiana di mantenere e conquistare un posizionamento significativo nello scenario globale del terzo millennio. Questo avviene soprattutto per le piccole e medio imprese,
che costituiscono la maggioranza delle imprese del Made in Italy che, per intraprendere un percorso di
internazionalizzazione, devono affrontare molti problemi; per questi motivi risulta indispensabile avere
una classe dirigenziale capace di analizzare i nuovi mercati, le opportunità di business e i processi
digitali a supporto dell’export in mercati strategici per il Made in Italy.
 
Per questi motivi con il presente disegno di legge si delega il Governo ad istituire il liceo del Made in
Italy.
Si sottolinea che il percorso liceale fornisce allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una
comprensione approfondita della realtà, affinché egli si ponga, con atteggiamento razionale, creativo,
progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi, ed acquisisca conoscenze,
abilità e competenze coerenti con le capacità, le scelte personali e adeguate al proseguimento degli
studi di ordine superiore, all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro 
nello scenario globale del terzo millennio.

[…]

Questo avviene soprattutto per le piccole e medio imprese,
che costituiscono la maggioranza delle imprese del Made in Italy che, per intraprendere un percorso di
internazionalizzazione, devono affrontare molti problemi; per questi motivi risulta indispensabile avere
una classe dirigenziale capace di analizzare i nuovi mercati, le opportunità di business e i processi
digitali a supporto dell’export in mercati strategici per il Made in Italy.
Per questi motivi con il presente disegno di legge si delega il Governo ad istituire il liceo del Made in
Italy.
Si sottolinea che il percorso liceale fornisce allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una
comprensione approfondita della realtà, affinché egli si ponga, con atteggiamento razionale, creativo,
progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi, ed acquisisca conoscenze,
abilità e competenze coerenti con le capacità, le scelte personali e adeguate al proseguimento degli
studi di ordine superiore, all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro. […]

Profitti per pochi, disuguaglianza crescente e “autonomia nel 2023” – Atlante Editoriale

Disuguitalia”: un’Italia in cui le disuguaglianze crescono sempre di più. L’analisi prodotta da Oxfam nel nuovo rapporto intitolato “La disuguaglianza non conosce crisi” [1] presentato all’apertura del “World economic forum” di Davos fotografa un’Italia che sta procedendo sul binario dell’aumento delle disuguaglianze: 

«La riduzione delle disuguaglianze rappresenta un tema cui nessun governo ha finora attribuito centralità d’azione, il tema si è trovato ridimensionato (relegato, in molti casi, alla mera retorica) nell’ultima campagna elettorale e la nuova stagione politica si sta contraddistinguendo più per il riconoscimento e la premialità di contesti ed individui che sono già avvantaggiati che per una lotta determinata contro meccanismi iniqui (ed inefficienti) che accentuano i divari e le fratture sociali, minando la coesione e svilendo il nostro patto di cittadinanza».

Nel rapporto, Oxfam chiede al governo che:
«gli interventi di sostegno alle famiglie contro l’aumento dei prezzi devono essere ulteriormente ricalibrati per migliorare l’effetto compensativo per i nuclei familiari con capacità di spesa minore», che vadano protette «le retribuzioni reali per tutelare le condizioni di vita dei lavoratori e gruppi sociali più poveri» al fine di stimolare «nuovi accordi tra le parti sociali volti a ridefinire sistemi più efficaci di indicizzazione dei salari ai prezzi» e, infine, «di indicizzare all’inflazione il reddito-soglia per l’accesso al Reddito di cittadinanza (Rdc)»

L’attacco dell’esecutivo al Reddito di cittadinanza è grandemente noto, così come la narrazione che la maggioranza di Governo ha diffuso già da quando era “minoranza” (a cui per la verità si affiancava la voce del Partito democratico) fornendo alla popolazione un’immagine stereotipata e distorta del percettore del beneficio.
L’Oxfam, a tal proposito, rincara la dose: 

«Il Governo deve fare un passo indietro sul regime transitorio del RDC previsto per il 2023 e garantire l’erogazione del sussidio per tutte le mensilità spettanti a tutti i beneficiari dell’istituto, rinunciando a un approccio categoriale che vede nell’impossibilità di lavorare e non nella condizione di bisogno il titolo d’accesso alla misura». 

Non solo: 

«va reso più equo, per quanto attiene ai criteri di accesso alla misura e all’entità del sussidio erogato e più efficiente con particolare riguardo alla riduzione dell’elevata aliquota marginale che grava sui beneficiari che già lavorano o iniziano a lavorare». 

Greedflaction
Non solo disuguaglianze ma anche “inflazione da avidità”, in inglese: “greedflaction”.
È uno dei neologismi dell’umanità che naviga nella crisi economica da un ventennio
«I profitti societari mostrano una tendenza al rialzo da decenni. Prima della pandemia, le aziende di Global Fortune 500 [2] avevano aumentato i propri profitti del 156% in un decennio, dagli 820 miliardi di dollari nel 2009 ai 2.100 miliardi di dollari nel 2019. Oggi i profitti, in particolari settori dell’economia, stanno raggiungendo livelli sempre più elevati, contribuendo alla crisi del caro-vita». 
Per intenderci: l’inflazione non si verifica solo quando “la domanda supera l’offerta” conseguente aumento dei prezzi, ma anche perché 

«le imprese stanno scaricando sui consumatori l’aumento dei costi dei beni intermedi; stanno capitalizzando sulla crisi usandola come giustificazione per imporre prezzi più alti»

L’autonomia è “a tanto così”
Nonostante tutto, il dibattito politico ruota attorno alla cattura di Matteo Messina Denaro e alle frizioni che si stanno verificando nella maggioranza. Strumentali, beninteso: battute di Silvio Berlusconi a parte e “affermazioni forti” del ministro Sangiuliano riguardo un Dante Alighieri “destrorso”. Le conseguenze della Legge di bilancio sembrano essere scomparse dai radar politici e quel che si intende, tra le righe della grande stampa nazionale e dalle dichiarazioni incrociate di esponenti politici, è che il governo ha bisogno di fiducia. Parlamentare e da parte dei mercati, s’intende.
Certo è che, al momento, con l’approssimarsi delle elezioni regionali cominciano a riemergere anche quelle che sono le momentanee tensioni del centrodestra e le conseguenze delle dichiarazioni da campagna elettorale. Un esempio su tutte: l’autonomia. Indipendenza no, sovranità nemmeno, dunque tornare al concetto di “autonomia” sembra essere vitale per la Lega. Anzi, va indicata una data certa: nel 2023. Parossismo all’ennesima potenza, Matteo Salvini sembra esserne più che convinto [3]: 

«dopo 30 anni di battaglie, grazie ad un centrodestra serio e compatto al governo e alla presenza importante della Lega, l’autonomia sarà realtà nel 2023».

Ieri l’abolizione della povertà, oggi l’autonomia ma sicuramente «del doman non v’è certezza».
Note:
[1] Pubblicato il 16/01/2023 visibile a questo link Report-OXFAM_La-disuguaglianza-non-conosce-crisi_final.pdf (oxfamitalia.org).
[2] Global Fortune 500 è una classifica delle 500 – per l’appunto – aziende più potenti a livello globale. La “potenza” è misurata nel fatturato delle stesse. Nella top ten ci sono Walmart, Amazon, Apple, Wolkswagen ma anche Sudi Aramco, Sinopec Group. La classifica completa è visibile qui: https://fortune.com/ranking/global500/2022/search/
[3] Dichiarazione rilasciata nel corso della conferenza stampa di presentazione dei candidati della Lega per le prossime regionali del 12 e 13 febbraio.

Pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/it-profitti-per-pochi-disuguaglianza-crescente-e-autonomia-nel-2023/

Soldi al vento, i nostri. È il capitalismo, bellezza.

Fonte foto: Afp – Sole24Ore
La notizia ribattuta dalle agenzie di stampa, in questo caso dall’«Ansa» è davvero implacabile:
nel corso della giornata di ieri [16 marzo 2020 ndr] la seduta delle borse europee è stata al ribasso ed ha «causato uno scivolone dell’indice StoxxEurope600 * del 4,9%».
In termini monetari il crollo equivale a «255 miliardi di capitalizzazione ‘bruciati’ in una [sola] giornata».
Oggi si prova a rimodulare l’avvio delle borse, ce ne informa il «Sole 24 Ore»: «Netto rialzo per le Borse europee, che rimbalzano dopo l’ennesima seduta nera in cui l’Eurostoxx ha perso oltre il 5% e Piazza Affari è caduta del 6,1%, con i mercati finanziari colpiti dalla paura per gli effetti del coronavirus sull’economia e dalla diffusione del contagio in Europa e negli Stati Uniti. La reazione arriva all’indomani del comunicato dell’Eurogruppo che si è impegnato a prendere qualsiasi iniziativa per supportare l’economia dell’Eurozona. […] Lo status di Paese ultraindebitato e più colpito dall’epidemia fa dell’Italia un bersaglio ideale della speculazione. Specialmente dopo le parole di Christine Lagarde di giovedì scorso («Non è nostro compito chiudere gli spread»)». 

Non è responsabilità di nessuno, figuriamoci dell’Unione Europea e dei grandi capitali sanare la situazione economica dei paesi membri! Il punto è proprio l’indebitamento che genera speculazione finanziaria, una sorta di serpente che mangia la propria coda per l’eternità.
Le grandi masse di miliardi che vengono investiti, bruciati, ripresi e frutto di speculazioni finanziarie altro non sono altro che il disvelamento della reale natura del capitalismo.
Un sistema che – ogni giorno di più – mostra la sua vera natura: una rapina continua nei confronti della popolazione, inumano, evidentemente irriformabile.

C’è poi da fare anche un brevissimo commento – da post- it – riguardo le parole che riecheggiano nel lessico politico-giornalistico del capitalismo nell’era della sua estensione più selvaggia, nonché in una fase del tutto peculiare come quella della pandemia Coronavirus che sta comprimendo i guadagni dei mercati facendo pagare il conto di questa compressione a centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori.


Il termine ricapitalizzazione ci fa rivolgere la mente ad una situazione imprenditoriale italiana che è ben nota alla popolazione: Alitalia. In quel caso, in piccolo rispetto alle quotazioni azionarie di grandi indici europei e transnazizonali, le perdite le pagavano le lavoratrici e i lavoratori, così come i contribuenti: a fronte di una vasta speculazione privata di una ristretta cerchia di dirigenti in cerca di fare profitto su ogni aspetto della vita dell’azienda, il debito era scaricato sulla fascia più debole del comparto societario. Il tutto mentre la buonuscita dei manager era milionaria: assegni staccati mentre si profilavano licenziamenti di massa e i vari governi profilavano la privatizzazione di Alitalia come unica soluzione.

Questo è il capitalismo, nient’altro: socializzazione delle perdite, privatizzazione dei guadagni.
Ma i soldi sono sempre i nostri.

* Lo StoxxEurope600 raggruppa «i principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente» [cfr articolo precedentemente citato nel collegamento ipertestuale].

Il controllo sociale ai tempi del virus, nonché del “capitalismo della sorveglianza” *

Il «manifesto» di oggi [14/03/2020] pubblica un articolo siglato da Andrea Capocci (An. Cap.) che racconta di come la Corea del Sud stia agendo per fronteggiare la pandemia Coronavirus: «La Corea del Sud è un paese abbastanza simile al nostro per popolazione e superficie: un po’ più di 50 milioni di abitanti (noi siamo 60 milioni) distribuiti in 220 mila chilometri quadrati, contro i 301 mila italiani, età media di 42 anni poco inferiore ai nostri 46. Come si spiega che lo stesso virus abbia una così diversa letalità in due contesti analoghi?».
I numeri posti al di sopra dell’articolo consegnano al lettore un momento di riflessione riguardo il dilagarsi del contagio nel paese diviso al 53esimo parallelo: «in Corea del Sud ci sono 8.000 casi censiti contro i 15.000 dell’Italia ma i morti qui sono solo 71»


La connessione tra controllo e Coronavirus 
Il controllo sociale, come riporta il titolo dell’articolo, è stato utilizzato per abbassare i numeri del contagio ed evitare la massiccia propagazione del CoVid-19: «Per capire con quali persone un paziente è entrato in contatto […] sono stati usati i tracciati gps dei telefoni, i dati sull’utilizzo delle carte di credito, le telecamere a circuito chiuso. […] Per ottenere queste informazioni sono state integrate le banche dati della polizia, delle società telefoniche, delle assicurazioni sanitarie, delle autorità finanziarie».
La diffusione del contagio può essere fermata, dunque, qualora si entri nella vita di tutti i giorni della popolazione, in questo caso sudcoreana, che nel corso degli ultimi dieci anni si è largamente dotata di uno smartphone ad uso personale o lavorativo. 
La questione sembra essere ininfluente ai fini del dibattito politico o pubblico, tuttavia, spesso abbiamo avuto modo di ascoltare – da amici, colleghi di lavoro, parenti – frasi simili a questa: “non importa che io venga tracciato, le mie mail spiate o accenda costantemente la posizione e Google mi mandi resoconti della mia “attività”: non ho nulla da nascondere”. 
Sentenza priva di ogni senso, o meglio, con un significato ben preciso: la totale inconsapevolezza dell’“utilizzatore finale” di dispositivi elettronici a cui è obbligatorio associare un account Google, iCloud e, prima che terminasse il supporto sui propri dispositivi, Windows mobile
L’Ovra o la Gestapo ne sarebbero stati felicissimi. 

Ma facciamo un passo indietro. 

Al momento della diffusione del virus Mers-CoV *, a ridosso del 2012, la Corea del Sud ha registrato il maggior numero di casi dopo l’Arabia Saudita: all’epoca il governo fu criticato per aver negato la concessione di informazioni, come ad esempio i luoghi visitati dai pazienti per contenere il contagio del virus.
La legge è stata modificata al fine di autorizzare gli investigatori ad entrare nei dispositivi elettronici della popolazione: nell’articolo del giornalista Capocci del «manifesto» non è stato fatto cenno alle aziende produttrici dei sistemi operativi degli smartphones proprio perché, a causa di un analogo caso di emergenza di coronavirus, il Governo sudcoreano è corso ai ripari modificando la norma.
Nei dispositivi elettronici della popolazione sudcoreana – riporta la BBC – arrivano notifiche come questa: «Un uomo di 43 anni, residente nel distretto di Nowon, è risultato positivo al coronavirus».
«Questi avvisi – scrive Hyung Eun Kim della BBC coreana – appaiono in continuazione sugli smartphones della popolazione indicando dove una persona è stata infetta e quando […] non viene fornito alcun nome o indirizzo ma spesso si riesce a ricollegare conoscenze, luoghi visitati e, dunque, ad identificare le persone: in molti casi si sono ricostruiti adulteri consumati in hotel a ore»**.
Il problema legato alla discrezionalità di queste informazioni è tema di indubbio interesse e alla portata di qualsiasi lettore che sappia andare oltre la stupidità della stantìa frase “non ho niente da nascondere”: il mondo transnazionale legato alla interconnessione di utenze mail e navigatori gps inseriti in dispositivi telefonici, unite da un lato alla pratica sempre più diffusa da dedali di “aziende terze” che si preoccupano di profilare gli utenti e, dall’altra, la crescente attenzione da parte dei governi democratico-liberali, desta più di qualche interrogativo.
È evidente che, nel corso degli anni, l’utilizzo degli smartphones, giustapposto all’affinamento, al perfezionamento degli usi che un utente può farvi, alla sempre più duttile utilità dei sistemi operativi ivi installati, ha assunto un ruolo sempre più predominante nella vita della popolazione.
Il sistema che ne è venuto fuori è quello di una pervasività totale all’interno delle nostre vite: il capitalismo entra, così, a gamba tesa in ogni aspetto della giornata di ogni singolo individuo.
Basta concedere l’accesso della posizione del proprio dispositivo e quello del microfono e il gioco è fatto: la profilazione è totale e ogni nostra azione è monitorata in ogni singolo istante.

Spesso riteniamo come la connessione dati sia indispensabile per la vita di tutti i giorni, anche per le operazioni più semplici legate a necessità immediate: falso.
Il bisogno indotto da strumenti sempre più pervasivi nella nostra quotidianità ha fatto in modo che si arrivasse a percepire come necessaria l’interrogazione a Google in un qualsiasi aspetto della nostra giornata: che sia l’indicazione stradale o che sia la trasmissione dei dati personali per il contrasto del coronavirus. La risultante è, tuttavia, quello di una massificata profilazione di utenti informatizzati che posseggono uno smartphone e che, in questo specifico caso nordcoreano, hanno contratto il virus.
Si potrebbe certo sostenere che l’azione messa in atto dal governo sudcoreano è senza dubbio efficace: si notificano a tutti i dispositivi connessi ad internet notizie certificate dal Ministero preposto al fine di informare cittadine e cittadini riguardo il contagio di una data persona in una certa zona del paese.
La partita di giro è molto più imponente di quel che si voglia pensare: in cambio del proprio servilismo a sistemi operativi a cui abbiamo concesso l’uso della nostra intimità (voce e iride due aspetti su tutti) e delle nostre azioni quotidiane, possiamo essere informati sulla progressività del contagio del coronavirus, al netto degli “effetti indesiderati”, come quel che è avvenuto il 18 febbraio a seguito di una notifica che riguardava il contagio di una donna di 27 anni.
La donna lavorava allo stabilimento Samsung di Gumi e la notifica «ha riportato che alle 18:30 di sera del 18 febbraio» si sarebbe incontrata con una sua amica che aveva partecipato al raduno della setta religiosa Shincheonji***, il vettore di maggior diffusione del contagio nel Paese: «il sindaco di Gumi ha diffuso il suo nome su Facebook e i residenti della città, in preda al panico, hanno iniziato a commentare sulle reti sociali in preda all’odio e alla psicosi: “dacci l’indirizzo del suo condominio”»****.
È arrivato, dunque, il momento di prendere in considerazione l’atto della disconnessione per avviarne un serio dibattito, da marxisti.

Middle East Respiratory Syndrome, sindrome respiratoria del Medio Oriente, detta anche “influenza dei cammelli”, responsabile della sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus.
** Hyung Eun Kim,
Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too
revealing?
, «Bbc», 5 marzo
2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.
*** Il vettore di maggior diffusione del contagio
del virus è legato ad una congregazione cristiana che in Sud Corea è
considerata una setta, come ha riportato l’agenzia «Reuters» nei
primi giorni di marzo: «Il governo di Seoul ha aperto un indagine [1
marzo 2020 ndt] sul leader di una setta cristiana (Shincheonji
– Chiesa di Gesù al Tempio del tabernacolo e della testimonianza)
al centro del micidiale scoppio del coronavirus nel Paese» secondo
il governo sudcoreano «la chiesa era responsabile del rifiuto di
cooperare con le autorità al fine di fermare la malattia
»
dal momento che «una grande maggioranza degli oltre 4.000 casi
confermati di coronavirus, il numero più alto dopo la Cina, è stata
collegata alla Shincheonji, setta di cui è capo il fondatore Lee
Man-hee». Secondo il primo cittadino di Seoul Park Won-soon, se Lee
e gli altri leader della chiesa avessero collaborato, si sarebbero
potute mettere in atto efficaci misure preventive per salvare vite
che in seguito sarebbero morte in seguito alla contrazione del virus. 

Shangmi
Cha,
Murder probe sought for South Korea
sect at center of coronavirus outbreak
,
«Reuters», 2 marzo 2020,
<https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-southkorea-murder/murder-probe-sought-for-south-korea-sect-at-center-of-coronavirus-outbreak-idUSKBN20P07Q>.
**** Hyung Eun Kim,
Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too
revealing?
, «Bbc», 5 marzo
2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.

* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6425

Il «duello» nel dibattito che non c’è

Piccola premessa
Chi ha detto che la filosofia è inutile? Probabilmente qualche Presidente di qualche stato latino americano lusofono in odor di potere assoluto, o di qualcun altro evidente estimatore di Pinochet (per quel che sta succedendo in Cile: https://www.facebook.com/TomasHirschDiputado/videos/933282370390086/). Chi si scaglia contro l’inutilità della filosofia non è qualcuno che ha compreso la vera essenza della materia individuandola nell’inutilità della stessa, piuttosto ha compreso la portata rivoluzionaria di un modus pensandi che potrebbe far crollare le fondamenta del proprio potere costituito sul terrore o su di una evidente mancanza di democrazia. Una nazione retta in modo a-democratico (con tanto di alfa privativo) evidentemente pone se stessa in opposizione al concetto di Stato giustificandone, tuttavia, la giustezza del proprio sistema. Così i dittatori nazifascisti assumevano il controllo dello Stato con la forza per fare in modo di poter governare per il bene di tutti: le funzioni vitali della Nazione potevano essere subordinate per un bene più grande, quello della salvezza dello Stato, così allo stesso modo le libertà del popolo, degli elettori o dei cittadini, com’è in voga determinare ultimamente il corpo sociale.
Oltre agli esponenti politici sopra citati, ci sarebbe da aggiungere all’elenco anche coloro i quali ritengono che il mondo possa essere determinato dalle regole dell’economia e si affida ciecamente ad economisti per prevedere il futuro dello sviluppo economico del Paese (così come le tendenze macroeconomiche) salvo poi scoprire che i numeri sono sempre implacabilmente gli stessi: +0.x o -0.y, dunque conta davvero molto poco.
Fenomenologia del dibattito politico
Eppure il dibattito politico si serve costantemente della filosofia, certo non dandogli pacche sulle spalle o mostrandole la dignità che si merita. Al contrario, il dibattito la irride forse anche senza volere, ma prendendola ugualmente in giro.
Una prova tangibile di tutto questo è anzitutto l’ultima manifestazione di un cosiddetto dibattito avvenuto in seconda serata sulla sempre pessima trasmissione «Porta a Porta» condotta dall’inossidabile Bruno Vespa. 
Titolone in grassetto dietro il conduttore della trasmissione: «Il duello: Matteo vs Matteo». 
Seduti l’uno di fronte l’altro c’erano i due Senatori della Repubblica Matteo Salvini e Matteo Renzi, leader delle loro formazioni politiche l’una sulla cresta dell’onda mediatico-elettorale, l’altra nascente. Matteo contro Matteo rimanda ad un’idea di scontro, prima ancora che ad un incontro: ci sono due persone che si contrappongono e lo fanno senza esclusione di colpi, altrimenti la puntata non si sarebbe intitolata “il duello” ma piuttosto “il confronto” o “il dibattito”. Porre un esponente contro l’altro significa trasporre sul piano dialettico una differenza di posizioni e di risposte alle questioni d’attualità e/o storiche, poste dal conduttore per orientare il dibattito.
Si potrebbe, certo, in questa sede affermare sommessamente come tale confronto e dibattito sostanzialmente non è in quanto posto su basi del tutto franabili, come avrebbe detto un timorato Aldo Baglio in «Così e la vita» mentre scalava una roccia per l’appunto franabile (e non friabile dato che frana «non è che fria»): il dibattito è tale se ci sono posizioni contrapposte riguardo una visione del mondo del tutto opposta a cui fare riferimento. Qualora, per assurdo, uno dei due fosse stato contrario all’economia di mercato (alias: il capitalismo) allora sì poteva essere utile chiamare ‘dibattito’ un incontro siffatto. Dato che i due contendenti trattano delle stesse tematiche con eguale linguaggio, a parte alcuni aggettivi ed espressioni più o meno truculente o fiorentinamente colorite, è sostanzialmente inutile collocare il confronto nell’alveo del ‘dibattito’. Chiamarlo così, al contrario, serve non a chi usufruisce del messaggio ma a chi vuole inviarlo: porre su un piano antitetico due persone che la pensano esattamente allo stesso modo e che, a parte qualche frecciatina e battuta di spirito su qualche tema particolare riguardante l’amministrazione di questo o quel comune politicamente retto dalle rispettive controparti politiche o riguardo questa o quella legge appoggiata da Renzi o da Salvini, aumenta una percezione di scontro dra le due posizioni che – in realtà – è completamente assente.
Chi riceve il messaggio, colpito dall’apparizione della puntata in grassetto “Matteo vs Matteo” e corroborato dalla specifica: “il duello” comprende che le parti in causa sono già in lotta, tuttavia – se l’ascoltatore si prendesse la briga di seguire realmente il dibattito – noterebbe che, al netto di grafiche accattivanti per porre sotto una precisa ottica la puntata televisiva, i due non si oppongono in alcun modo alle idee generali dell’altro. Qualora dovessero accennare a farlo ci troveremmo di fronte ad un gioco delle parti che dura il tempo della trasmissione: la manifestazione di equipollenza politica spesso passa attraverso una fase di supposto scontro o litigio strumentale per poi trovarsi sulle stesse posizioni.
Si dirà: «ma allora i porti aperti/chiusi? Quella è una differenza sostanziale». Tale obiezione si sostanzia già nella domanda: non esiste questione di porti aperti o chiusi in quanto se si dovesse davvero chiudere Genova o Palermo – ad esempio – l’economia italiana franerebbe (e stavolta frana davvero, non fria) in un batter d’occhio. La retorica sulla chiusura o apertura dei porti è una lotta tutta a suon di slogan che non aggiunge nient’altro a quanto già detto.
A proposito di slogan sarebbe da continuare a trattare l’argomento con dovizia di particolari, tuttavia lo scritto è già abbastanza lungo, è bene rimandare le riflessioni sugli slogan ad un altro post.

La voce della coscienza [del capitale]

Il riscaldamento globale non esiste, il lavoro è una roba novecentesca, la politica deve dialogare col mercato, la finanza è un’opportunità, gli stati devono “capire meccanismi altri”, le donne possono anche tacere e possibilmente fare la calza, i migranti si lasciano morire. O meglio, possono pure arrivare qua, ma devono accettare il lavoro nero. Sei l’ultimo arrivato, qua stiamo messi malissimo, dunque o «questa minestra» o «te la butto dalla finestra».

Però, tranquilli, davvero, non c’è da allarmarsi: i consumi riprenderanno, il lavoro tornerà, a condizioni di mercato – chiaro -, il Pil avrà l’impennata che lo farà tornare a livello 0 (che è pur sempre un numero neutro, senza quegli orpelli di + e – che ne condizionano la quantità e la qualità). Tutti saranno accontentati e chiunque potrà vivere serenamente in armonia. In armonia di mercato.

Voi dovete solo cercare di consumare più dell’anno precedente.
E morire in fretta, possibilmente. 
Che non è che possiamo pagà le pensioni a tutti. 
Grazie. 

post scriptum: possibili conguagli imprevisti da tenere in considerazione, no rimostranze.

Più Europa o più nazionalismi/sovranismi? È la domanda che è sbagliata

Qualche giorno fa è stato pubblicato un articolo di Natale Salvo pubblicato su Pressenza il cui titolo era: “Elezioni 2019, Europa al bivio: più Europa o più nazionalismo?”. Ho avuto modo di interagire con lui, facendo parte della stessa redazione, spiegandogli le ragioni della mia contrarietà ad alcune sue parole d’ordine e frasi ricorrenti nel post come queste:

«[…]L’Europa è lontana dall’essere perfetta, ma non è neanche quel buco nero che tutto distrugge come viene descritta da certuni. Senza dubbio, sono evidenti i benefici ottenuti da alcuni settori e in numerose regioni grazie alle azioni politiche condotte da Bruxelles»

e ancora:

«Gli errori dell’Unione Europea: poca Europa, solo Mercati». 

Due questioni che aprono due dibattiti apparentemente paralleli ma in realtà convergenti e sovrapponibili: l’Europa, intesa come entità etnico/geografica e la costituzione dell’Unione Europea così come la conosciamo e per come si è sviluppata nel corso degli anni. Traggo spunto, dunque, dalle riflessioni messe per iscritto da Natale per produrre a mia volta delle considerazioni che partiranno da lì ma che esuleranno dal suo scritto per analizzare degli aspetti a mio avviso rilevanti.

Un conto è la geografia, un conto la politica
L’Europa come entità geografica è un qualcosa a cui nessuno può o intende opporsi o negarvi un’appartenenza. Se si rimane nel seminato delle considerazioni geografiche è facile dire che anche io, da antieuropesta, mi potrei sentire “europeo” dal momento che l’Italia condivide una porzione di un Continente con altri Stati. Ma finisce lì. Al netto delle considerazioni storiche riguardo il Vecchio continente. La questione è che si è voluto dare, e la stragrande maggioranza delle persone vi ha indubbiamente abboccato, una risposta cosmopolita a questa oggettiva speculazione geografica:

«[…] il cosmopolitismo prescide dalle nazioni e ha un carattere individualistico. L’individuo si sente cittadino del mondo, invece che legato ad una determinata comunità territoriale. Sul piano economico, il cosmopolitismo esprime l’aspetto della mobilità, una delle caratteristiche vitali del capitale, che richiede sia l’esistenza dello Stato territoriale, per le garanzie e le regole che qesto può offrire, sia un’ampia libertà di movimento al di sopra dei confini statali» (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.20., 2018, Imprimatur).

Cercare di sfruttare questa ovvietà geografica per rimarcare la necessaria coesistenza e traslare il tutto in “ovvia strutturazione di una sovrastruttura sovranazionale” come l’Ue, è un atto politicamente torbido e intellettualmente disonesto.
Così come, allo stesso modo, contrapporre una risposta binaria (sì/no, pro/contro) ad una questione estremamente complessa come l’Unione Europea.

Sempre più spesso si ascoltano discorsi per cui o si è assolutamente aderenti con l’Ue e con tutto quel che ne consegue, altrimenti si è nazionalisti, salviniani, leghisti e fascisti. La generazione più colpita da questo colossale fraintendimento è la precedente a quella di chi scrive: i nati nel corso della Guerra Fredda, infatti, dopo aver attraversato la dissoluzione dell’Urss, la distruzione del Partito comunista e socialista in Italia e negli altri Paesi, hanno vissuto nell’illusione tutta positiva dell’abbattimento delle frontiere come carattere individualistico e ottimamente propulsivo della conoscenza del mondo. Una risposta cosmopolita, per dirla nei termini di Domenico Moro, ad una esigenza del capitalismo di riaffermarsi in tutto il globo, una volta venuto a mancare il blocco orientale e i paesi del Patto di Varsavia. Affermare un’europeismo oggettivo, geografico, non significa, però, essere supinamente pro-Ue: la distinzione è enorme e il fraintendimento causato dalla sovrapposizione di questi due piani ha creato una generazione la cui aspirazione massima è la conoscenza cosmopolita del mondo ad essa prossimo, intesa nel senso prima esposto. E ancora, sviluppando una tendenza al non c’è alternativa, il cosiddetto Tina (There is no alternative): il sentimento della mancanza d’alternativa, del contrappeso – se vogliamo – della presenza di un altro sistema economico, politico e sociale, ha fatto apparire come unica e necessaria la strutturazione della sovrastruttura dell’Unione europea.

«Non c’è ancora integrazione: dobbiamo avere più Europa!»
La menzogna concatenata al discorso fin qui esposto («sono nato in Europa, dunque sono automaticamente europeista-filo-Ue e filo Uem – Unione europea monetaria») è quella per cui si accetta la linea dell’Ue ma con riserve ma non nel senso di critiche all’impianto a-democratico della struttura sovranazionale così com’è, ma in quanto servirebbe una maggiore integrazione dei paesi membri dell’Unione affinché si consolidi la cosiddetta europa politica.

Il fatto che sia stata creata prima l’Europa del capitale, l’Europa finanziaria, di quella politica, non rappresenta un errore o una scelta affrettata, quanto proprio una scala di priorità di chi ha fatto in modo che si procedesse in tal senso. Criticare l’Ue significa, almeno per chi scrive, essere coerentmenete antieuropeista nella misura in cui essere europeisti significhi e si traduca con giustificare e appoggiare tutte le politiche che sono state realizzate fino ad ora, anche nei confronti di chi – velatamente – critica tale impianto perché there is no alternative (Tina).

Anche perché, citando sempre il libro di Domenico Moro, integrazione europea si tradurrebbe in «riogranizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale»:

«[…] Il combinato disposto di crisi, globalizzazione e integrazione europea, oltre a bruciare milioni di posti di lavoro, ha eliminato migliaia di imprese e di unitò produttive. L’euro, infatti, ha favorito la centralizzazione dei capitali europei, mediante fuzioni e acquisizioni tra imprese, in modo che queste potessero raggiungere dimensioni pari a quelle dei grandi gruppi statunitensi e asiatici. Ma non basta: il prossimo passo dell’integrazione europea è la creazione del mercato unico dei capitali, la cui premessa è l’unione bancaria. La riforma bancaria europea ha provocato il fallimento di molte banche, scaricandone i costi, mediante l’introduzione del bail in, sui risparmiatori che vi avevano investito, e favorito la centralizzazione anche a livello bancario. Lo scopo è, da una parte, realizzare un mercato dicapitali adeguato alle necessità espansive e di aquisizione dei grandi gruppi, e, dall’altra, favorire la quotazione in borsa e l’aumento dimensionale delle imprese, in sintesi attuare la riorganizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale». (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.25, 2018, Imprimatur)

È la domanda iniziale ad essere sbagliata
La domanda posta, in ultima analisi, fra la necessità di una maggiore richiesta di Europa o una risposta nazionalista/sovranista, è sostanzialmente sbagliata. Porre in questi termini la questione significherebbe lasciarsi attraversare dalla retorica dei grandi gruppi editoriali, al soldo del capitale transnazionale, e della propaganda pro-Ue. Il solo fatto che ci possa essere, da sinistra o ancora più precisamente da marxista, una critica netta al liberismo, all’euro e all’Unione europea così come si presenta ai nostri occhi, fa sì che la reazione sia scomposta e si inneschino dei discorsi di rossobrunismo che, oltre alla loro risibilità, lasciano davvero il tempo che trovano.
Alla grande stampa, tuttavia, interessa che vi siano solo due posizioni che emergano nell’agone politico nazionale: da una parte quella pro-Ue (Partito democratico, Radicali, +Europa etc), dall’altra la retorica anti-Ue da destra (Lega, Fratelli d’Italia, Movimento 5 Stelle) i quali vorrebbero, comunque, un ritorno al sovranismo solo per favorire momentaneamente una piccola porzione di capitalismo nazionale che, nel frattempo, ha delocalizzato lasciando disoccupati migliaia di lavoratori “in patria”.

“Sei anti-Ue? Allora, voti Salvini”
Una delle [tante] altre risposte a tutto questo è la più geniale (diciamo così) di tutte, quella che sta facendo riemergere la questione antifascista agli (orrori) delle cronache politiche quotidiane: essere antieuropeista si tradurrebbe, agli orecchi di chi ascolta o agli occhi di chi legge, immediatamente, in un velato sostegno a formazioni neofasciste. Anche inconscio, ovviamente, che prima o poi riemergerà con tutta la sua forza. L’antifascismo che sta emergendo adesso, infatti, rappresenta una formazione di facciata di fronte al giornalismo d’accatto e parimenti uno scalpo da ostentare nei confronti della dilaniata opinione pubblica italiana.

Dichiararsi antifascisti perché (ormai l’adagio è passato) in Europa dopo la guerra ci sono stati 70 anni di pace rappresenta, in sé, una bella [e grossa] bugia.
Prima di tutto perché la guerra c’è, è stata ed è anche alle nostre porte: Jugoslavia e Ucraina, tanto per citarne solo due. Non proprio territori remoti. Senza, poi, contare di tutte le missioni militari che – ad esempio l’Italia – i paesi Nato promuovono: Afghanistan, Iraq, Libano, Niger e la lista è molto lunga.

In secondo luogo perché l’antifascismo è, di per sé, un’azione politica (oserei dire un programma politico, dato che ha prodotto la Costituzione della Repubblica Italiana, prima che essa venisse modificata nel corso del Governo Monti) che prescinde dall’appoggiare sovrastrutture che nessuno ha eletto ma che, attraverso un auto-mandato, governano su quel che rimane degli stati nazionali: antifascismo è anticapitalismo, necessariamente. Tertium non datur.
Ecco, però, emergere un antifascismo in seno alle classi dominanti le quali, non riuscendo più a contenere gli istinti bestiali del liberismo, a seguito della globalizzazione post dissoluzione sovietica, fanno appello alle classi popolari e subalterne per poter creare una sorta di “fronte comune” contro la paura, la xenofobia, il razzismo, il fascismo.
La socialdemocrazia europea, infatti, sta recitando questo copione da svariati anni e il sipario sta per calare su di essa. Il deputato umanista cileno Tomas Hirsch, a riguardo, ha dato una spiegazione magistrale del perché la socialdemocrazia è in crisi, tanto in America latina (in particolar modo nel suo paese), quanto in Europa:

«La socialdemocrazia sta scomparendo in Europa e sta scomparendo in America Latina per una ragione molto semplice: tra una brutta copia e l’originale, la gente ha preferito l’originale. […] Non è possibile cercare di “migliorare” il modello [neoliberista ndt], “umanizzarlo”, “ritoccarlo”: o sei per questo modello individualista, o sei per un cambiamento strutturale profondo della società che garantisca diritti alle persone. La socialdemocrazia non è né per uno, né per l’altro».

E non è vero che non c’è alternativa. Solo, non se ne parla, si annichilisce, si osteggia aprioristicamente con il Tina, non ci viene mostrata, un po’ come per il Mito della caverna di Platone. 

Il Capitale agisce: isteria e lucida razionalità

Lo spread visto da Diego Bianchi – Zoro (fonte: «Il Post»).
Lo spread è altissimo, lo spread si abbassa, lo spread aumenta e si stabilizza: 187 punti base. «Dobbiamo aver paura?», chiedeva qualche giorno fa Giovanna Reanda di Radio Radicale ad un giornalista di «Avvenire» in collegamento dal Quirinale, subito dopo la conferenza stampa di Luigi di Maio. Il giornalista di «Avvenire», Picariello, rispondeva così: «Il problema è tutto proiettato su conti ed economia ed è notevole: quello che arriva dai mercati attraverso lo spread è un segnale inequivocabile». Un segnale inequivocabile che ieri mattina veniva ricordato anche dal «Quotidiano Nazionale» (ovvero la testata che comprende «Nazione», «Resto del Carlino», «Il Giorno») che pubblicava un’infografica molto utile per la comprensione del fenomeno “spread”, di cui improvvisamente si è di nuovo tornati a parlare. Nel 2008, si legge nell’infografica, lo spread era di 37 punti (Governo Prodi), in tre anni arriva al massimo storico (574 punti) sotto il Governo Berlusconi, scese col Governo Monti (287 punti), scese ancora con Letta toccando il minimo con Gentiloni (a Giugno 60 punti), nonostante si vede che sotto Renzi fosse arrivato a quasi 80 punti. Siamo di nuovo di fronte alle agenzie di rating che elaborano il fattore  di “rischio paese” e iniziano la speculazione finanziaria conseguente: non sono un economista, ma la storia è sempre la stessa.

La stessa da quando JPMorgan (nel 2013, in questo documento) disse che le Costituzioni dei paesi “euromediterranei” mostravano «una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo» perché quei sistemi politici «sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature e sono rimasti segnati da quell’esperienza».

Il capitale agisce nervosamente armandosi di lucida razionalità consegnando agli strumenti di propaganda massmediatica nazionale e internazionale l’ideologia dominante della governabilità, facendo in modo che gli emissari della “nuova politica” si preoccupino di farsi portavoce del “superamento delle ideologie”, che si traduce nell’approvazione del pensiero unico 10 volte su 10.

Il capitale agisce e attraverso la propaganda inculca quel concetto prima esposto (la governabilità) nei confronti degli elettori, dei (s)cittadini, degli italiani tutti. Se il capitale re-agisce, la politica si adegua: Salvini e Di Maio partono incendiari e fieri ma arrivano pompieri proponendo un nome come quello di Conte che si tradurrebbe in un Monti bis, senza troppi giri di parole. Un po’ come la Le Pen che è partita con l’uscita dall’Euro ed è arrivata a dire come «l’uscita dall’Euro non è più una priorità».
La popolazione, tuttavia, è allo stremo (soprattutto da un punto di vista psicologico) e tremendamente confusa, dunque non comprende realmente quel che accade nell’oggi e nell’attuale: qualora il cosiddetto “governo gialloverde” dovesse insediarsi avrà modo di rabbonire una fetta consistente di popolazione attraverso proclami, spot, briciole da dare a chi sta peggio per compensare l’introduzione dell’ingiusta flat tax. Non mi stupirebbe sentire già qualcuno per strada affermando cose tipo: «Hai visto? Il governo di Salvini e Di Maio m’ha dato il sussidio x/y per la tale cosa», senza contare che non c’è nessun governo e che magari quella domanda l’aveva inoltrata un anno e mezzo fa. Cose di questo genere. [Il post è volutamente tronco e finisce così senza “lieto fine”, anche perché non credo ce ne sia uno].

Fiscal che? | La prefazione dell'e-book di Pressenza

L’importanza di avviare un dibattito aperto, da anticapitalisti, riguardo il Fiscal Compact e le problematiche che tale compito porta con sé, è un obiettivo che non può considerarsi un traguardo, anzi. Rappresenta, infatti, l’inizio di un percorso che dovrà necessariamente proseguire sul terreno dello scambio e della partecipazione comune, al fine di consolidare quel dissenso positivo, o costruttivo, come si leggerà nel corso dell’e-book. Dall’anno dell’introduzione del Pareggio di Bilancio in Costituzione, una parte della politica e dell’opinione pubblica ha iniziato a dissentire su ciò che il Governo Monti di allora aveva ratificato, andando de facto a ledere i principi della Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza. Tuttavia, la maggioranza del Paese era completamente all’oscuro di ciò che significasse (e significhi ad oggi) il termine Fiscal Compact, nonostante l’approvazione da parte del Governo Monti, così come allo stesso modo è ad oggi del tutto ignaro ai più come mai le amministrazioni locali delle grandi metropoli (ad esempio Roma) hanno sempre la metaforica “coperta corta”. 
Il nodo cruciale del dibattito attorno al Fiscal Compact sta in questo: il tema, avendo assunto proporzioni enormi, tocca questioni della vita quotidiana di ognuno, che sia un abitante di una piccola o grande città. È un dovere avviare un percorso di dibattito attraverso il lavoro quotidiano di Pressenza e delle organizzazioni politiche interpellate per la realizzazione di questo piccolo e-book. È un dovere proseguire l’interazione avviata per poter far sì che si creino dei ponti fra chi ha avuto l’idea di realizzare questo prodotto e chi ha avuto il coraggio di avviare una campagna (Stop Fiscal Compact) in una fase politica come quella attuale.
Quando si parla di quest’argomento, infatti, si tocca inevitabilmente la questione del sistema economico, del capitalismo e della sua crisi; della sua connotazione violenta e del suo superamento; delle possibili alternative. Si tocca, in sostanza, un dibattito politico mai neanche lontanamente sfiorato nel nostro Paese, tutto rivolto ed attento agli occhiali che portava Grillo, alla camicia di Renzi o alla giacca di Di Maio, fino alle felpe di Salvini. Si tocca, dunque, il nerbo di quel che dovrebbe essere il dibattito politico e culturale di un Paese. È per questo che Multimage ha sposato il progetto di Pressenza di pubblicare un e-book a riguardo: creare dibattito, creare coscienza critica (anticapitalista, necessariamente), far incontrare posizioni, far dialogare attivisti, giornalisti e soggetti politici è uno degli obiettivi. Uno, per l’appunto, non l’unico. Stante la situazione politica del Paese, dibattere attorno a questioni reali e d’importanza massima non è direttamente proporzionale all’acquisizione di consenso (elettorale e culturale) nella società e nella più che polarizzata opinione pubblica italiana (referendum del 4 dicembre docet). Tuttavia il nostro risultato sarà a lungo termine, prendendo in prestito le parole di Alexander Langer nel 1994 al Convegno giovanile di Assisi, il quale a sua volta parafrasava il motto del Barone De Coubertin in occasione dei giochi olimpici: «Lentius, profundius, suavius», al contrario di «Altius, citius fortius»
«Era un motto giocoso, di per sé, che riguardava una competizione olimpionica» ma dal sostrato ludico, spiegava Langer. Tuttavia «oggi 1’“altius, citius fortius” rappresenta la quintessenza della competizione della nostra civiltà: ci viene detto di sforzarsi “ad essere più veloci, più forti e di arrivare più in alto”. Io vi propongo, al contrario, il “lentius, profundius, suavius”, cioè il capovolgimento di ognuno di questi temi»
Perché con questo motto (o, nel nostro caso, parlando di Fiscal Compact e di anticapitalismo) «non si vince nessuna battaglia frontale» ma «forse si avrà il fiato più lungo».

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