Mercato batte ideologia. A cinquant’anni dalla riunificazione, il Vietnam si è progressivamente avvicinato al modello di sviluppo cinese, dunque accettando di buon grado il libero mercato, pur mantenendo la struttura di governo a partito unico.
Tag: capitalismo
Liceo del Made in Italy, un progetto nato per il compiacimento di un capitalismo agonizzante
«L’obiettivo – ha spiegato Bucalo all’ANSA il 3 aprile subito dopo la dichiarazione di Meloni al Vinitaly – è creare figure specialistiche che permettano di avere un patrimonio culturale sia in campo giuridico che tecnico per avere professionisti altamente specializzati. Quello attuale è un mercato sempre più in evoluzione, risentiamo dell’agguerrita concorrenza della Cina e dobbiamo salvaguardare le piccole imprese e tutelare i prodotti del Made in Italy».
«Abbiamo percorsi di studio molto lunghi e il mondo del lavoro richiede invece una formazione che si adatti velocemente ai cambiamenti che richiede il mercato» ha proseguito Carmela Bucalo nell’intervista rilasciata all’agenzia ANSA.
Se non la si ha, può andar bene la condizione semi-schiavile dei lavoratori agricoli o della ristorazione. A proposito di made in Italy. Reiterando, o giocando a farlo, il ritornello per cui una scuola ad indirizzo tecnico porti in dote più sbocchi lavorativi agli studenti di un liceo classico. Inutile, peraltro, l’indirizzo umanistico, per costoro. “Storia, filosofia, latino e greco: jamais!”.
Per chi ha stomaco forte, di seguito si inseriscono stralci dal Ddl sul progetto del “liceo del made in Italy”, ricordando che il testo completo è alla terza riga del post:
Occorre puntare su studi quali la storia dell’arte, base della coscienza del nostro passato artistico,
puntando con sguardo critico alla geografia, in particolare economica della nostra Italia, per la
cognizione dei comparti produttivi e per le zone di provenienza.
La carenza strutturale di competitività e i cambiamenti radicali nelle attività politiche ed economiche
globali, dovuti al fatto che le Nazioni emergenti stanno offrendo importanti opportunità di sviluppo e,
in alcuni casi, performance al di fuori del normale, hanno sollevato una significativa preoccupazione
circa la capacità dell’economia italiana di mantenere e conquistare un posizionamento significativo nello scenario globale del terzo millennio. Questo avviene soprattutto per le piccole e medio imprese,
che costituiscono la maggioranza delle imprese del Made in Italy che, per intraprendere un percorso di
internazionalizzazione, devono affrontare molti problemi; per questi motivi risulta indispensabile avere
una classe dirigenziale capace di analizzare i nuovi mercati, le opportunità di business e i processi
digitali a supporto dell’export in mercati strategici per il Made in Italy.
Per questi motivi con il presente disegno di legge si delega il Governo ad istituire il liceo del Made in
Italy.
Si sottolinea che il percorso liceale fornisce allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una
comprensione approfondita della realtà, affinché egli si ponga, con atteggiamento razionale, creativo,
progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi, ed acquisisca conoscenze,
abilità e competenze coerenti con le capacità, le scelte personali e adeguate al proseguimento degli
studi di ordine superiore, all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro nello scenario globale del terzo millennio.
[…]
Questo avviene soprattutto per le piccole e medio imprese,
che costituiscono la maggioranza delle imprese del Made in Italy che, per intraprendere un percorso di
internazionalizzazione, devono affrontare molti problemi; per questi motivi risulta indispensabile avere
una classe dirigenziale capace di analizzare i nuovi mercati, le opportunità di business e i processi
digitali a supporto dell’export in mercati strategici per il Made in Italy.
Per questi motivi con il presente disegno di legge si delega il Governo ad istituire il liceo del Made in
Italy.
Si sottolinea che il percorso liceale fornisce allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una
comprensione approfondita della realtà, affinché egli si ponga, con atteggiamento razionale, creativo,
progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi, ed acquisisca conoscenze,
abilità e competenze coerenti con le capacità, le scelte personali e adeguate al proseguimento degli
studi di ordine superiore, all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro. […]
Profitti per pochi, disuguaglianza crescente e “autonomia nel 2023” – Atlante Editoriale
«La riduzione delle disuguaglianze rappresenta un tema cui nessun governo ha finora attribuito centralità d’azione, il tema si è trovato ridimensionato (relegato, in molti casi, alla mera retorica) nell’ultima campagna elettorale e la nuova stagione politica si sta contraddistinguendo più per il riconoscimento e la premialità di contesti ed individui che sono già avvantaggiati che per una lotta determinata contro meccanismi iniqui (ed inefficienti) che accentuano i divari e le fratture sociali, minando la coesione e svilendo il nostro patto di cittadinanza».
L’attacco dell’esecutivo al Reddito di cittadinanza è grandemente noto, così come la narrazione che la maggioranza di Governo ha diffuso già da quando era “minoranza” (a cui per la verità si affiancava la voce del Partito democratico) fornendo alla popolazione un’immagine stereotipata e distorta del percettore del beneficio.
L’Oxfam, a tal proposito, rincara la dose:
«Il Governo deve fare un passo indietro sul regime transitorio del RDC previsto per il 2023 e garantire l’erogazione del sussidio per tutte le mensilità spettanti a tutti i beneficiari dell’istituto, rinunciando a un approccio categoriale che vede nell’impossibilità di lavorare e non nella condizione di bisogno il titolo d’accesso alla misura».
Non solo:
«va reso più equo, per quanto attiene ai criteri di accesso alla misura e all’entità del sussidio erogato e più efficiente con particolare riguardo alla riduzione dell’elevata aliquota marginale che grava sui beneficiari che già lavorano o iniziano a lavorare».
È uno dei neologismi dell’umanità che naviga nella crisi economica da un ventennio:
«I profitti societari mostrano una tendenza al rialzo da decenni. Prima della pandemia, le aziende di Global Fortune 500 [2] avevano aumentato i propri profitti del 156% in un decennio, dagli 820 miliardi di dollari nel 2009 ai 2.100 miliardi di dollari nel 2019. Oggi i profitti, in particolari settori dell’economia, stanno raggiungendo livelli sempre più elevati, contribuendo alla crisi del caro-vita».
«le imprese stanno scaricando sui consumatori l’aumento dei costi dei beni intermedi; stanno capitalizzando sulla crisi usandola come giustificazione per imporre prezzi più alti».
Certo è che, al momento, con l’approssimarsi delle elezioni regionali cominciano a riemergere anche quelle che sono le momentanee tensioni del centrodestra e le conseguenze delle dichiarazioni da campagna elettorale. Un esempio su tutte: l’autonomia. Indipendenza no, sovranità nemmeno, dunque tornare al concetto di “autonomia” sembra essere vitale per la Lega. Anzi, va indicata una data certa: nel 2023. Parossismo all’ennesima potenza, Matteo Salvini sembra esserne più che convinto [3]:
«dopo 30 anni di battaglie, grazie ad un centrodestra serio e compatto al governo e alla presenza importante della Lega, l’autonomia sarà realtà nel 2023».
Pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/it-profitti-per-pochi-disuguaglianza-crescente-e-autonomia-nel-2023/
Soldi al vento, i nostri. È il capitalismo, bellezza.
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| Fonte foto: Afp – Sole24Ore |
Non è responsabilità di nessuno, figuriamoci dell’Unione Europea e dei grandi capitali sanare la situazione economica dei paesi membri! Il punto è proprio l’indebitamento che genera speculazione finanziaria, una sorta di serpente che mangia la propria coda per l’eternità.
Le grandi masse di miliardi che vengono investiti, bruciati, ripresi e frutto di speculazioni finanziarie altro non sono altro che il disvelamento della reale natura del capitalismo.
Un sistema che – ogni giorno di più – mostra la sua vera natura: una rapina continua nei confronti della popolazione, inumano, evidentemente irriformabile.
C’è poi da fare anche un brevissimo commento – da post- it – riguardo le parole che riecheggiano nel lessico politico-giornalistico del capitalismo nell’era della sua estensione più selvaggia, nonché in una fase del tutto peculiare come quella della pandemia Coronavirus che sta comprimendo i guadagni dei mercati facendo pagare il conto di questa compressione a centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori.
Il termine ricapitalizzazione ci fa rivolgere la mente ad una situazione imprenditoriale italiana che è ben nota alla popolazione: Alitalia. In quel caso, in piccolo rispetto alle quotazioni azionarie di grandi indici europei e transnazizonali, le perdite le pagavano le lavoratrici e i lavoratori, così come i contribuenti: a fronte di una vasta speculazione privata di una ristretta cerchia di dirigenti in cerca di fare profitto su ogni aspetto della vita dell’azienda, il debito era scaricato sulla fascia più debole del comparto societario. Il tutto mentre la buonuscita dei manager era milionaria: assegni staccati mentre si profilavano licenziamenti di massa e i vari governi profilavano la privatizzazione di Alitalia come unica soluzione.
Questo è il capitalismo, nient’altro: socializzazione delle perdite, privatizzazione dei guadagni.
Ma i soldi sono sempre i nostri.
* Lo StoxxEurope600 raggruppa «i principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente» [cfr articolo precedentemente citato nel collegamento ipertestuale].
Il controllo sociale ai tempi del virus, nonché del “capitalismo della sorveglianza” *
Il «manifesto» di oggi [14/03/2020] pubblica un articolo siglato da Andrea Capocci (An. Cap.) che racconta di come la Corea del Sud stia agendo per fronteggiare la pandemia Coronavirus: «La Corea del Sud è un paese abbastanza simile al nostro per popolazione e superficie: un po’ più di 50 milioni di abitanti (noi siamo 60 milioni) distribuiti in 220 mila chilometri quadrati, contro i 301 mila italiani, età media di 42 anni poco inferiore ai nostri 46. Come si spiega che lo stesso virus abbia una così diversa letalità in due contesti analoghi?».
I numeri posti al di sopra dell’articolo consegnano al lettore un momento di riflessione riguardo il dilagarsi del contagio nel paese diviso al 53esimo parallelo: «in Corea del Sud ci sono 8.000 casi censiti contro i 15.000 dell’Italia ma i morti qui sono solo 71».
La diffusione del contagio può essere fermata, dunque, qualora si entri nella vita di tutti i giorni della popolazione, in questo caso sudcoreana, che nel corso degli ultimi dieci anni si è largamente dotata di uno smartphone ad uso personale o lavorativo.
Ma facciamo un passo indietro.
Al momento della diffusione del virus Mers-CoV *, a ridosso del 2012, la Corea del Sud ha registrato il maggior numero di casi dopo l’Arabia Saudita: all’epoca il governo fu criticato per aver negato la concessione di informazioni, come ad esempio i luoghi visitati dai pazienti per contenere il contagio del virus.
La legge è stata modificata al fine di autorizzare gli investigatori ad entrare nei dispositivi elettronici della popolazione: nell’articolo del giornalista Capocci del «manifesto» non è stato fatto cenno alle aziende produttrici dei sistemi operativi degli smartphones proprio perché, a causa di un analogo caso di emergenza di coronavirus, il Governo sudcoreano è corso ai ripari modificando la norma.
Nei dispositivi elettronici della popolazione sudcoreana – riporta la BBC – arrivano notifiche come questa: «Un uomo di 43 anni, residente nel distretto di Nowon, è risultato positivo al coronavirus».
«Questi avvisi – scrive Hyung Eun Kim della BBC coreana – appaiono in continuazione sugli smartphones della popolazione indicando dove una persona è stata infetta e quando […] non viene fornito alcun nome o indirizzo ma spesso si riesce a ricollegare conoscenze, luoghi visitati e, dunque, ad identificare le persone: in molti casi si sono ricostruiti adulteri consumati in hotel a ore»**.
Il problema legato alla discrezionalità di queste informazioni è tema di indubbio interesse e alla portata di qualsiasi lettore che sappia andare oltre la stupidità della stantìa frase “non ho niente da nascondere”: il mondo transnazionale legato alla interconnessione di utenze mail e navigatori gps inseriti in dispositivi telefonici, unite da un lato alla pratica sempre più diffusa da dedali di “aziende terze” che si preoccupano di profilare gli utenti e, dall’altra, la crescente attenzione da parte dei governi democratico-liberali, desta più di qualche interrogativo.
È evidente che, nel corso degli anni, l’utilizzo degli smartphones, giustapposto all’affinamento, al perfezionamento degli usi che un utente può farvi, alla sempre più duttile utilità dei sistemi operativi ivi installati, ha assunto un ruolo sempre più predominante nella vita della popolazione.
Il sistema che ne è venuto fuori è quello di una pervasività totale all’interno delle nostre vite: il capitalismo entra, così, a gamba tesa in ogni aspetto della giornata di ogni singolo individuo.
Basta concedere l’accesso della posizione del proprio dispositivo e quello del microfono e il gioco è fatto: la profilazione è totale e ogni nostra azione è monitorata in ogni singolo istante.
Spesso riteniamo come la connessione dati sia indispensabile per la vita di tutti i giorni, anche per le operazioni più semplici legate a necessità immediate: falso.
Il bisogno indotto da strumenti sempre più pervasivi nella nostra quotidianità ha fatto in modo che si arrivasse a percepire come necessaria l’interrogazione a Google in un qualsiasi aspetto della nostra giornata: che sia l’indicazione stradale o che sia la trasmissione dei dati personali per il contrasto del coronavirus. La risultante è, tuttavia, quello di una massificata profilazione di utenti informatizzati che posseggono uno smartphone e che, in questo specifico caso nordcoreano, hanno contratto il virus.
Si potrebbe certo sostenere che l’azione messa in atto dal governo sudcoreano è senza dubbio efficace: si notificano a tutti i dispositivi connessi ad internet notizie certificate dal Ministero preposto al fine di informare cittadine e cittadini riguardo il contagio di una data persona in una certa zona del paese.
La partita di giro è molto più imponente di quel che si voglia pensare: in cambio del proprio servilismo a sistemi operativi a cui abbiamo concesso l’uso della nostra intimità (voce e iride due aspetti su tutti) e delle nostre azioni quotidiane, possiamo essere informati sulla progressività del contagio del coronavirus, al netto degli “effetti indesiderati”, come quel che è avvenuto il 18 febbraio a seguito di una notifica che riguardava il contagio di una donna di 27 anni.
La donna lavorava allo stabilimento Samsung di Gumi e la notifica «ha riportato che alle 18:30 di sera del 18 febbraio» si sarebbe incontrata con una sua amica che aveva partecipato al raduno della setta religiosa Shincheonji***, il vettore di maggior diffusione del contagio nel Paese: «il sindaco di Gumi ha diffuso il suo nome su Facebook e i residenti della città, in preda al panico, hanno iniziato a commentare sulle reti sociali in preda all’odio e alla psicosi: “dacci l’indirizzo del suo condominio”»****.
È arrivato, dunque, il momento di prendere in considerazione l’atto della disconnessione per avviarne un serio dibattito, da marxisti.
** Hyung Eun Kim,
Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too
revealing?, «Bbc», 5 marzo
2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.
*** Il vettore di maggior diffusione del contagio
del virus è legato ad una congregazione cristiana che in Sud Corea è
considerata una setta, come ha riportato l’agenzia «Reuters» nei
primi giorni di marzo: «Il governo di Seoul ha aperto un indagine [1
marzo 2020 ndt] sul leader di una setta cristiana (Shincheonji
– Chiesa di Gesù al Tempio del tabernacolo e della testimonianza)
al centro del micidiale scoppio del coronavirus nel Paese» secondo
il governo sudcoreano «la chiesa era responsabile del rifiuto di
cooperare con le autorità al fine di fermare la malattia»
dal momento che «una grande maggioranza degli oltre 4.000 casi
confermati di coronavirus, il numero più alto dopo la Cina, è stata
collegata alla Shincheonji, setta di cui è capo il fondatore Lee
Man-hee». Secondo il primo cittadino di Seoul Park Won-soon, se Lee
e gli altri leader della chiesa avessero collaborato, si sarebbero
potute mettere in atto efficaci misure preventive per salvare vite
che in seguito sarebbero morte in seguito alla contrazione del virus.
Cha, Murder probe sought for South Korea
sect at center of coronavirus outbreak,
«Reuters», 2 marzo 2020,
<https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-southkorea-murder/murder-probe-sought-for-south-korea-sect-at-center-of-coronavirus-outbreak-idUSKBN20P07Q>.
Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too
revealing?, «Bbc», 5 marzo
2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.
* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6425
Il «duello» nel dibattito che non c’è
La voce della coscienza [del capitale]
Più Europa o più nazionalismi/sovranismi? È la domanda che è sbagliata
«[…]L’Europa è lontana dall’essere perfetta, ma non è neanche quel buco nero che tutto distrugge come viene descritta da certuni. Senza dubbio, sono evidenti i benefici ottenuti da alcuni settori e in numerose regioni grazie alle azioni politiche condotte da Bruxelles»
e ancora:
«Gli errori dell’Unione Europea: poca Europa, solo Mercati».
Due questioni che aprono due dibattiti apparentemente paralleli ma in realtà convergenti e sovrapponibili: l’Europa, intesa come entità etnico/geografica e la costituzione dell’Unione Europea così come la conosciamo e per come si è sviluppata nel corso degli anni. Traggo spunto, dunque, dalle riflessioni messe per iscritto da Natale per produrre a mia volta delle considerazioni che partiranno da lì ma che esuleranno dal suo scritto per analizzare degli aspetti a mio avviso rilevanti.
«[…] il cosmopolitismo prescide dalle nazioni e ha un carattere individualistico. L’individuo si sente cittadino del mondo, invece che legato ad una determinata comunità territoriale. Sul piano economico, il cosmopolitismo esprime l’aspetto della mobilità, una delle caratteristiche vitali del capitale, che richiede sia l’esistenza dello Stato territoriale, per le garanzie e le regole che qesto può offrire, sia un’ampia libertà di movimento al di sopra dei confini statali» (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.20., 2018, Imprimatur).
Cercare di sfruttare questa ovvietà geografica per rimarcare la necessaria coesistenza e traslare il tutto in “ovvia strutturazione di una sovrastruttura sovranazionale” come l’Ue, è un atto politicamente torbido e intellettualmente disonesto.
Così come, allo stesso modo, contrapporre una risposta binaria (sì/no, pro/contro) ad una questione estremamente complessa come l’Unione Europea.
Sempre più spesso si ascoltano discorsi per cui o si è assolutamente aderenti con l’Ue e con tutto quel che ne consegue, altrimenti si è nazionalisti, salviniani, leghisti e fascisti. La generazione più colpita da questo colossale fraintendimento è la precedente a quella di chi scrive: i nati nel corso della Guerra Fredda, infatti, dopo aver attraversato la dissoluzione dell’Urss, la distruzione del Partito comunista e socialista in Italia e negli altri Paesi, hanno vissuto nell’illusione tutta positiva dell’abbattimento delle frontiere come carattere individualistico e ottimamente propulsivo della conoscenza del mondo. Una risposta cosmopolita, per dirla nei termini di Domenico Moro, ad una esigenza del capitalismo di riaffermarsi in tutto il globo, una volta venuto a mancare il blocco orientale e i paesi del Patto di Varsavia. Affermare un’europeismo oggettivo, geografico, non significa, però, essere supinamente pro-Ue: la distinzione è enorme e il fraintendimento causato dalla sovrapposizione di questi due piani ha creato una generazione la cui aspirazione massima è la conoscenza cosmopolita del mondo ad essa prossimo, intesa nel senso prima esposto. E ancora, sviluppando una tendenza al non c’è alternativa, il cosiddetto Tina (There is no alternative): il sentimento della mancanza d’alternativa, del contrappeso – se vogliamo – della presenza di un altro sistema economico, politico e sociale, ha fatto apparire come unica e necessaria la strutturazione della sovrastruttura dell’Unione europea.
Il fatto che sia stata creata prima l’Europa del capitale, l’Europa finanziaria, di quella politica, non rappresenta un errore o una scelta affrettata, quanto proprio una scala di priorità di chi ha fatto in modo che si procedesse in tal senso. Criticare l’Ue significa, almeno per chi scrive, essere coerentmenete antieuropeista nella misura in cui essere europeisti significhi e si traduca con giustificare e appoggiare tutte le politiche che sono state realizzate fino ad ora, anche nei confronti di chi – velatamente – critica tale impianto perché there is no alternative (Tina).
Anche perché, citando sempre il libro di Domenico Moro, integrazione europea si tradurrebbe in «riogranizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale»:
«[…] Il combinato disposto di crisi, globalizzazione e integrazione europea, oltre a bruciare milioni di posti di lavoro, ha eliminato migliaia di imprese e di unitò produttive. L’euro, infatti, ha favorito la centralizzazione dei capitali europei, mediante fuzioni e acquisizioni tra imprese, in modo che queste potessero raggiungere dimensioni pari a quelle dei grandi gruppi statunitensi e asiatici. Ma non basta: il prossimo passo dell’integrazione europea è la creazione del mercato unico dei capitali, la cui premessa è l’unione bancaria. La riforma bancaria europea ha provocato il fallimento di molte banche, scaricandone i costi, mediante l’introduzione del bail in, sui risparmiatori che vi avevano investito, e favorito la centralizzazione anche a livello bancario. Lo scopo è, da una parte, realizzare un mercato dicapitali adeguato alle necessità espansive e di aquisizione dei grandi gruppi, e, dall’altra, favorire la quotazione in borsa e l’aumento dimensionale delle imprese, in sintesi attuare la riorganizzazione del processo generale di accumulazione capitalistica a livello continentale». (Domenico Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, p.25, 2018, Imprimatur)
È la domanda iniziale ad essere sbagliata
La domanda posta, in ultima analisi, fra la necessità di una maggiore richiesta di Europa o una risposta nazionalista/sovranista, è sostanzialmente sbagliata. Porre in questi termini la questione significherebbe lasciarsi attraversare dalla retorica dei grandi gruppi editoriali, al soldo del capitale transnazionale, e della propaganda pro-Ue. Il solo fatto che ci possa essere, da sinistra o ancora più precisamente da marxista, una critica netta al liberismo, all’euro e all’Unione europea così come si presenta ai nostri occhi, fa sì che la reazione sia scomposta e si inneschino dei discorsi di rossobrunismo che, oltre alla loro risibilità, lasciano davvero il tempo che trovano.
Alla grande stampa, tuttavia, interessa che vi siano solo due posizioni che emergano nell’agone politico nazionale: da una parte quella pro-Ue (Partito democratico, Radicali, +Europa etc), dall’altra la retorica anti-Ue da destra (Lega, Fratelli d’Italia, Movimento 5 Stelle) i quali vorrebbero, comunque, un ritorno al sovranismo solo per favorire momentaneamente una piccola porzione di capitalismo nazionale che, nel frattempo, ha delocalizzato lasciando disoccupati migliaia di lavoratori “in patria”.
“Sei anti-Ue? Allora, voti Salvini”
Una delle [tante] altre risposte a tutto questo è la più geniale (diciamo così) di tutte, quella che sta facendo riemergere la questione antifascista agli (orrori) delle cronache politiche quotidiane: essere antieuropeista si tradurrebbe, agli orecchi di chi ascolta o agli occhi di chi legge, immediatamente, in un velato sostegno a formazioni neofasciste. Anche inconscio, ovviamente, che prima o poi riemergerà con tutta la sua forza. L’antifascismo che sta emergendo adesso, infatti, rappresenta una formazione di facciata di fronte al giornalismo d’accatto e parimenti uno scalpo da ostentare nei confronti della dilaniata opinione pubblica italiana.
Dichiararsi antifascisti perché (ormai l’adagio è passato) in Europa dopo la guerra ci sono stati 70 anni di pace rappresenta, in sé, una bella [e grossa] bugia.
Prima di tutto perché la guerra c’è, è stata ed è anche alle nostre porte: Jugoslavia e Ucraina, tanto per citarne solo due. Non proprio territori remoti. Senza, poi, contare di tutte le missioni militari che – ad esempio l’Italia – i paesi Nato promuovono: Afghanistan, Iraq, Libano, Niger e la lista è molto lunga.
In secondo luogo perché l’antifascismo è, di per sé, un’azione politica (oserei dire un programma politico, dato che ha prodotto la Costituzione della Repubblica Italiana, prima che essa venisse modificata nel corso del Governo Monti) che prescinde dall’appoggiare sovrastrutture che nessuno ha eletto ma che, attraverso un auto-mandato, governano su quel che rimane degli stati nazionali: antifascismo è anticapitalismo, necessariamente. Tertium non datur.
Ecco, però, emergere un antifascismo in seno alle classi dominanti le quali, non riuscendo più a contenere gli istinti bestiali del liberismo, a seguito della globalizzazione post dissoluzione sovietica, fanno appello alle classi popolari e subalterne per poter creare una sorta di “fronte comune” contro la paura, la xenofobia, il razzismo, il fascismo.
La socialdemocrazia europea, infatti, sta recitando questo copione da svariati anni e il sipario sta per calare su di essa. Il deputato umanista cileno Tomas Hirsch, a riguardo, ha dato una spiegazione magistrale del perché la socialdemocrazia è in crisi, tanto in America latina (in particolar modo nel suo paese), quanto in Europa:
«La socialdemocrazia sta scomparendo in Europa e sta scomparendo in America Latina per una ragione molto semplice: tra una brutta copia e l’originale, la gente ha preferito l’originale. […] Non è possibile cercare di “migliorare” il modello [neoliberista ndt], “umanizzarlo”, “ritoccarlo”: o sei per questo modello individualista, o sei per un cambiamento strutturale profondo della società che garantisca diritti alle persone. La socialdemocrazia non è né per uno, né per l’altro».
Il Capitale agisce: isteria e lucida razionalità
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| Lo spread visto da Diego Bianchi – Zoro (fonte: «Il Post»). |
La stessa da quando JPMorgan (nel 2013, in questo documento) disse che le Costituzioni dei paesi “euromediterranei” mostravano «una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo» perché quei sistemi politici «sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature e sono rimasti segnati da quell’esperienza».
Il capitale agisce e attraverso la propaganda inculca quel concetto prima esposto (la governabilità) nei confronti degli elettori, dei (s)cittadini, degli italiani tutti. Se il capitale re-agisce, la politica si adegua: Salvini e Di Maio partono incendiari e fieri ma arrivano pompieri proponendo un nome come quello di Conte che si tradurrebbe in un Monti bis, senza troppi giri di parole. Un po’ come la Le Pen che è partita con l’uscita dall’Euro ed è arrivata a dire come «l’uscita dall’Euro non è più una priorità».
La popolazione, tuttavia, è allo stremo (soprattutto da un punto di vista psicologico) e tremendamente confusa, dunque non comprende realmente quel che accade nell’oggi e nell’attuale: qualora il cosiddetto “governo gialloverde” dovesse insediarsi avrà modo di rabbonire una fetta consistente di popolazione attraverso proclami, spot, briciole da dare a chi sta peggio per compensare l’introduzione dell’ingiusta flat tax. Non mi stupirebbe sentire già qualcuno per strada affermando cose tipo: «Hai visto? Il governo di Salvini e Di Maio m’ha dato il sussidio x/y per la tale cosa», senza contare che non c’è nessun governo e che magari quella domanda l’aveva inoltrata un anno e mezzo fa. Cose di questo genere. [Il post è volutamente tronco e finisce così senza “lieto fine”, anche perché non credo ce ne sia uno].
Fiscal che? | La prefazione dell'e-book di Pressenza
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