Mercato batte ideologia. A cinquant’anni dalla riunificazione, il Vietnam si è progressivamente avvicinato al modello di sviluppo cinese, dunque accettando di buon grado il libero mercato, pur mantenendo la struttura di governo a partito unico.
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Evo Morales sostiene di essere candidabile, la legge dice di no.
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| Manifestante pro-Evo nel corso di una manifestazione in Ecuador [2013] – fonte Wikimedia commons |
«Siamo pienamente abilitati a presentarci alle elezioni. È impressionante il sostegno che stiamo ricevendo: sono sicuro che vinceremo le elezioni col 60%!». A parlare alla ristretta cerchia di militanti giunti dalle più remote province del paese, è Evo Morales, già presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia e da più di due anni diretto avversario dell’attuale presidente Luis Lucho Arce Catacora. Non ci sarebbe niente di strano in quest’affermazione se non fosse che Evo e Lucho fanno parte, perlomeno ancora formalmente, dello stesso partito: il Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp).
Da due anni Evo sta spaccando il partito giungendo alla creazione di quel che è stato definito un Mas-parallelo rispetto a quello istituzionale e riconosciuto giuridicamente. In queste settimane, però, Morales è messo alle strette dalla giustizia: il tribunale di Tarija lo ha accusato di violenza sessuale su di una minorenne, fatto che risalirebbe attorno a due lustri fa. L’ex presidente non si sta presentando in tribunale, nonostante le convocazioni, e su di lui ora pende un mandato di cattura: obbligato al domicilio presso la sua residenza, non può uscire dalla regione del Chiapare in cui si sente protetto da settori politici, sindacali e dell’associazionismo legati alla realtà dei cocaleros che pure presiede.
Un outsider?
Il personaggio vicino a Evo che sta emergendo in questa circostanza è Andronico Rodriguez, giovane esponente del Mas-Ipsp, vicepresidente del Senato, è sostenitore della fazione anti Lucho. È lui a rappresentare il volto nuovo della fazione evista nonché la possibile cerniera tra le due correnti politiche. Tuttavia, sebbene la stampa boliviana abbia diffuso notizie che prevederebbero un possibile accordo di pacificazione nel partito prevedendo Arce candidato alla presidenza e Rodriguez come vice, lo stesso senatore si è detto indisponibile al tandem. «Ci sono state speculazioni e informazioni false che hanno attribuito il mio nome addirittura come candidato alla presidenza», ha dichiarato Andronico Rodriguez l’8 febbraio [2025] in un comizio dei sostenitori di Morales tenutosi nella città di Cochabamba, «il movimento popolare che si è unito attorno al nome di Evo Morales lo sosterrà [ancora] alla presidenza in vista delle prossime elezioni». Come a volersi smarcare dalle ricostruzioni della stampa, ha ribadito il proprio sostegno all’ex presidente. Chissà, però, che non succeda il contrario: in fondo alcune dichiarazioni servono in determinate circostanze specifiche ma lasciano il tempo che trovano nel lungo periodo. Succede così anche in Italia, d’altra parte.
Divisioni interne ed esterne
«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», ha dichiarato raggiunta al telefono Julia Damiana Ramos Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramos Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – ha aggiunto – «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione». Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.
Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite Radio Kawsachun Coca. Da settimane militanti a lui vicini stanno raggiungendo il suo domicilio, riunendosi con lui presso i locali della Seis federaciones, per «dimostrargli l’affetto e il sostegno politico». Una settimana fa una porzione consistente dei presidenti delle municipalità del dipartimento della capitale politica (La Paz) hanno riconosciuto Evo come candidato alla presidenza alle prossime elezioni che si terranno in agosto. Per dare un’idea dello scontro in atto: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente sono durati più di due mesi e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l’Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.
«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», ha spiegato da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.
La violenza è ovunque
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (come s’è accennato sopra): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. «Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige.
Il quotidiano boliviano «La Razon», che pure sarebbe vicino alle istanze del Mas-Ipsp, nell’edizione di lunedì 3 febbraio [2025] ha pubblicato numeri piuttosto eloquenti riguardo lo sfruttamento minorile nel paese: «In 11 anni si sono registrati 6.001 matrimoni tra uomini e ragazze minorenni la cui età si aggira tra i 16 e i 17 anni». Ancora: «nel 6,06% dei casi registrati l’età dello sposo è fino a tre volte superiore a quella della sposa». Una situazione evidentemente esplosiva che rappresenta, purtroppo, un costume diffusissimo nel paese.
«Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scoladtiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni».
La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore: sulle elezioni che si terranno ad agosto aleggia lo spettro di nuovi scontri sociali, com’è avvenuto per il tentato golpe dello scorso anno e per la Marcia per la vita a cui hanno partecipato i sostenitori di Morales il 14 gennaio [2025] terminata in scontri, lanci di molotov da parte dei manifestanti e lacrimogeni da parte della forza pubblica. La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.
Pubblicato su Pressenza il 17 febbraio 2025
Bolivia, due parti in lotta per uno stesso partito.
Centinaia di persone riversatesi in Piazza Murillo, là dove si trova Palacio Quemado (il palazzo del governo boliviano), gridano improperi al «governo traditore» cercando di forzare il blocco della polizia. È il 14 gennaio [2025] e la dimostrazione di piazza chiede di consegnare una «petizione popolare contro l’aumento dei prezzi degli alimenti di base», per denunciare la «mancanza di carburante nella gran parte delle stazioni di servizio del paese» e chiedendo le dimissioni del governo di Luis Lucho Arce Catacora, esponente del Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp). Gli animi si surriscaldano: manifestanti e polizia vengono a contatto. La manifestazione viene così sciolta con l’utilizzo della forza.
È la Marcia per la vita per cui i manifestanti hanno percorso 85 chilometri a piedi dalla città di Patacamaya a La Paz: sembrerebbe una ordinaria (benché forte) dimostrazione di contestazione da parte dell’opposizione a Luis Arce. Ma l’opposizione non c’entra davvero: i manifestanti appartengono al medesimo partito del Presidente. In Piazza Murillo c’erano i fedelissimi di Evo Morales, già presidente boliviano e figura di spicco del Mas-Ipsp. Due parti in lotta per uno stesso partito. Entrambi ne rivendicano il nome, la storia e la legittimità.
«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», dichiara a «L’Eco di Bergamo» Julia Damiana Ramon Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramon Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – aggiunge Ramon Sanchez – «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione».
Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.
Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite un’emittente radiofonica a lui vicina (Radio Kawsachun Coca). Per dare un’idea dello scontro: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente erano durati più di un mese e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l’Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.
«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», spiega a «L’Eco di Bergamo» da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (caso avvenuto due lustri fa): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula.
«Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige. Un costume, purtroppo, diffusissimo nel Paese: «Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scolastiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni».
La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore.
La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), si appresta a celebrare il giorno della nascita dello Stato plurinazionale (22 gennaio 2009) in un clima più che teso. Dopo sedici anni da quel giorno, il paese non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.
Articolo pubblicato su L’eco di Bergamo del 2 febbraio 2025
«Esiste un piano Usa per spaccare il Mas dall’interno», ma è Morales ad aver cominciato
«Le informazioni trapelate dall’ambasciata Usa in Bolivia mostrano chiaramente che esiste un piano per la ri-colonizzazione del nostro paese. E questo sarebbe possibile andando alla rottura del Mas per cercare di candidare un outsider alle prossime elezioni per conto del Mas».
Evo Morales, Presidente del Mas-Ipsp e autoproclamatosi candidato del partito per le elezioni del 2025, legge pubblicamente un documento «siglato il 18 aprile dall’ambasciata degli Usa in Bolivia», ha assicurato, nel corso della manifestazione di ieri [17 agosto 2024] a Caranavi (piccola cittadina nella regione de las yungas a nord est di La Paz).
«Stanno cercando di spaccare il Mas per prendersi il litio e le terre rare del nostro paese, hermanos», dice Morales leggendo il documento e arringando la folla ammutolita in religioso silenzio. «Eso nunca, Evo! [Questo non succederà mai, Evo!]», urla qualcuno: la tensione si rompe fragorosamente in un applauso in sostegno a Morales. Il discorso continua e si conclude in una festa nella cittadina yungeña.
Dopo le tensioni verificatesi nel partito a seguito dell’annuncio della sua candidatura, nonché dopo aver di fatto – spaccato in due il Mas tra evisti (tendenza di sostenitori e fedelissimi di Evo Morales) e arcisti (tendenza di sostenitori del Presidente boliviano Luis Arce Catacora e del vicepresidente David Choquehuanca), Morales sembra aver preso in mano la situazione e sta calando tutti gli assi che ha in mano.
Un candidato outsider?
Questa sarebbe la rivelazione resa da Evo Morales mentre parlava dal palco allestito per la manifestazione svoltasi a Caranavi. L’obiettivo dei gringos sarebbe il medesimo di sempre: appropriarsi delle ricchezze della Bolivia, specie nella fase attuale in cui l’occidente politico ha sempre maggior necessità non già di idrocarburi, quanto di terre rare e litio. Materie di cui la Bolivia è indubbiamente molto ricca.
Un candidato terzo che non proverrebbe dalle fila del Mas sarebbe il colpo di teatro «dell’impero nord americano», nonché di parti della borghesia boliviana: dopo il tentato golpe che ha coinvolto settori deviati dell’esercito e dello Stato maggiore boliviano, gli Usa – sostiene Morales – si starebbero preparando a «spaccare il Mas dall’interno».
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| Il comizio di Evo Morales a Caranavi | 17 agosto 2024 | Fonte: pagina Facebook Evo Morales Ayma. |
Chi spacca cosa?
Uno scenario di intromissione nel processo elettorale di un paese sudamericano non rappresenta, nei fatti, una novità per la politica internazionale. Non serve riesumare la dottrina Monroe nella sua riformulazione rooosveltiana (così come pure ha ricordato Morales dal palco di Caranavi), basti pensare ai colpi di stato palesemente eterodiretti dagli Usa nella regione. Il golpe nei confronti della prima vittoria di Hugo Chavez in Venezuela, per rimanere nei primi anni del nuovo millennio, ne fu un chiaro esempio.
Sebbene sia del tutto plausibile, tuttavia la spaccatura del Mas non sarebbe da imputare a nessun altro se non a Evo Morales stesso.
Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente, come già ricordato (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato e ora esistono due Mas che sono letteralmente l’uno contro l’altro.
Casus belli
Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto.
Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio [2024] i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell’Ibce (l’Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l’economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso.
Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo [2024] (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l’amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede.
Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al partito, tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas. Manco a dire ci fossero davvero esponenti outsider o della destra.
I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.
E ora?
Forse dopo il tentato golpe ai danni della presidenza di Luis Arce Catacora, la Bolivia dovrà davvero fare i conti con il peso specifico dell’autocandidato Evo Morales. In questi mesi (quasi una gestazione) la società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che risulta verosimilmente impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua, sedendosi pacificamente attorno ad un tavolo per concludere delle trattative.
E i candidati alle elezioni del 2025 continuano a essere due: Evo Morales e Luis Arce.
Pubblicato su La Rinascita – delle Torri
La paura delle formiche
Foto di Prabir Kashyap su Unsplash
Da giorni sta facendo discutere quanto affermato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla 50° edizione delle Settimane sociale dei cattolici tenutasi nella città di Trieste.
È bastato poco, per la verità, perché i sostenitori del presidenzialismo si scaldassero: Matteo Salvini – in forte crisi nel partito – ha, di nuovo, fatto tremare l’alleanza di centrodestra per cercare di recuperare un po’ di consenso interno ed esterno. È servita, come al solito, qualche voce meno leghista e più genericamente popolare (in senso di categoria politica, beninteso) di Forza Italia per cucire la proverbiale toppa provocata dal buco leghista. Quei toni utilizzati dal segretario leghista a proposito di «dittatura delle minoranze» hanno fatto arricciare il naso a molti, costretti a prendere parola anche quando non avrebbero voluto, con tutta evienza: la destra al governo deve mantenersi sul politicamente corretto. Poi la Lega ha smentito, ma il fatt(accio) ormai era già accaduto.
Non staremo qui a ripetere le dichiarazioni di Mattarella, di Salvini, di Meloni o di Tajani perché di articoli del genere ne è pieno internet e ne sono stati colmi, fino a non poterne quasi più, anche i quotidiani.
Ci interessa, in questa sede, riportare solo una delle tante interviste di commento alla vicenda che radio, tv e quotidiani hanno pubblicato: quella rilasciata da Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia-Berlusconi Presidente, ai microfoni di Lanfranco Palazzolo, giornalista di Radio Radicale andata in onda il 4 luglio [2024].
Gasparri, avendo Palazzolo chiestogli un parere sull’espressione pronunciata a Cortina da Matteo Salvini, ribadisce il suo pensiero stando nel tracciato della politica parlamentare e della questione legata al presidenzialismo per tutta la durata della breve intervista, riprendendo una proposta di Tatarella riguardo lo «statuto delle minoranze», per quel che riguarda l’ordinamento delle due Camere.
Poi, dichiara: «Guardi, [rivolgendosi al giornalista] io un caso di dittatura della minoranza glielo devo segnalare, così concludiamo la riflessione: il più grave caso della dittatura della minoranza è quello che fa sì che Spalletti rimanga alla guida della Nazionale di calcio. Non lo vuole nessuno: è presuntuoso, ci spiega tutto con quel tono di saccenza … Ecco, quello è un caso di dittatura della minoranza. La maggioranza degli italiani non lo vuole: Spalletti, vattene. Eppure, vede: [noi maggioranza] risultiamo sconfitti».
Pacioso e soddisfatto dell’incongruente paragone, Gasparri sorride mentre Palazzolo si avvicina nuovamente il microfono: «Gliela posso dire una cosa? È comunque meglio la dittatura delle minoranze della dittatura del proletariato».
Gasparri, ovviamente, gongola. Va raccontando da un trentennio dei milioni di morti del comunismo, che ogni lustro aumentano di centinaia di migliaia di unità, senza porre la minima distinzione tra chi è stato comunista fino alla fine dei suoi giorni ma venne ucciso dallo stalinismo. «Certo – annuisce sorridendo – io sono contro tutte le dittature e anche quella de Spalletti… nun se ne po’ più».
Quanto ancora fa paura l’espressione dittatura del proletariato? Fa una paura da matti. I sostenitori del neoliberismo, dunque i rappresentanti di organizzazioni politiche afferenti ai campi popolare e liberale, hanno una paura irrazionale che il loro potere piccolo e la loro esistenza possa essere messa in discussione di nuovo, che parlano sempre come se il pericolo della rivoluzione bolscevica sia dietro l’angolo. Quando è chiaro che non è e non sarà così. Perlomeno non avverrà a breve termine.
Entrambi gli attori prima citati, Gasparri e Palazzolo, hanno gli uni timore di non contare più nulla, qualora un giorno i lavoratori decidessero di mettersi in testa di farla finita davvero con lo stato di cose presenti, di essere vessati da tasse, di avere sempre meno possibilità di curarsi, di essere sfruttati ai limiti della schiavitù (la vicenda di Satnam Singh è stato un campanello d’allarme che è durato quel tanto che è bastato a far destare qualche anima bella dal proprio torpore politico-ideologico). Gli altri hanno, invece, il timore che, qualora la dittatura del proletariato giunga davvero, si dovrà dare spazio a chi la pensa differentemente anche sui media più ostili, tanto giungerà lontano l’eco dell’evento prima evocato.
Eppure gli epigoni di Karl Marx e Friederich Engels, così come della tradizione del comunismo leninista (e declinazioni conseguenti), non se la passano troppo bene, quantomeno in Italia, tanto sono divisi da essere giunti alla totale irrilevanza politica e sociale. Così talmente atomizzati da essere paradossalmente – al contrario – testardi nel continuare a perpetuare un lavoro politico di sensibilizzazione e di propaganda (per chi ancora è attivo) ma anche ingenui nel seguitare a riproporsi attraverso uno schema che – a ben vedere – ultimamente non ha portato a successi. Come operosissime formiche, sebbene un po’ schiave della routine.
Nonostante questo dato oggettivo, nonostante i comunisti in Italia non formino classe dirigente da almeno un ventennio, l’incubo peggiore per costoro è e rimarrà sempre la «dittatura del proletariato» per chi ha il potere e lo gestisce con protervia, cattiveria, odio sociale, razziale, di classe.
Che poi l’espressione significa, attraverso l’utilizzo di un linguaggio provocatorio («dittatura») di uno dei due autori in particolare (Marx) e di un’opera pubblicata a metà ‘800, quando il mondo sembrava sull’orlo della rivoluzione, che debbano essere gli sfruttati a decidere e non gli sfruttatori.
E questo fa ancora tantissima paura ai Gasparri e ai Palazzolo.
Da non credere.
Cosa sta succedendo (e cosa succederà) in Bolivia
Sono le 17:30 di mercoledì 26 giugno [2024] e il tentato golpe promosso dall’ormai ex capo delle forze armate boliviane Juan José Zúñiga è durato solo tre ore e parrebbe essere già terminato. Zúñiga è stato destituito e il presidente Arce ha nominato un nuovo comandante dell’esercito (il quale ha provveduto immediatamente a liberare la Piazza e a ritirare le truppe), azzerando anche le cariche dei graduati che hanno prestato il fianco all’operazione.
Attorno alle 14:30, la città di La Paz, la Bolivia intera, ha dovuto fronteggiare una situazione che per la storia del paese non è affatto nuova, ma certamente è stata inaspettata in questa circostanza, nonché per Arce e il suo vice Choquehuanca.
Blindati e componenti dell’esercito hanno bloccato i quattro lati di Piazza Murillo e un automezzo armato di mitragliatrice è riuscito ad arrivare a un passo dalla porta d’entrata di Palacio Quemado: dentro probabilmente, come hanno riferito fonti della stampa locale e dell’America Latina, c’erano i due ex, gli unici arrestati al termine della giornata. Ovvero: Juan José Zúñiga e il vice ammiraglio Juan Arnez Salvador.
Aparece un video del tenso encuentro de Luis Arce con los militares golpistas en el Palacio Quemado, Bolivia. pic.twitter.com/U9kGIW1apg
— Sepa Más (@Sepa_mass) June 27, 2024
Mentre il tentativo di golpe era in atto, Zúñiga ha continuato a rilasciare interviste alla stampa, in particolare una dichiarazione, ripresa anche da Correo del Sur farebbe riflettere sul senso dell’operazione e darebbe una chiave di lettura dell’azione: «La prenderemo [la Casa Grande del Pueblo]: ripristineremo la democrazia, libereremo i nostri prigionieri politici».
Così come al termine del tentato golpe, e prima di essere portato via dalla forza pubblica, stando al Correo del Sur, Zúñiga avrebbe affermato che la movimentazione di soldati e mezzi blindati sarebbe stata concordata col presidente Arce al fine di aumentarne la popolarità. Affermazioni di cui risponderà l’ex capo militare all’interrogatorio a cui verrà sottoposto.
Il partito di governo, il Mas (Movimento al socialismo), sembrerebbe essere il grande nemico dell’ex capo dell’esercito Zúñiga, sebbene la sua azione si fosse rivolta verso Evo Morales (ne aveva annunciato l’arresto in diretta tv), l’intenzione si rivolgerebbe effettivamente allo Stato a guida del partito di cui fanno parte anche Arce e Choquehuanca.
«Abbiamo vissuto, quel che si direbbe, “un giorno anomalo”», ha raccontato all’AtlanteDon Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundaciòn Munacim Kullakita di El Alto. «Ora si sta vivendo una relativa calma a La Paz: Arce ha pronunciato un discorso volto a rassicurare la popolazione, ha detto che la situazione è rientrata ed è tornata sotto controllo. Certo, di argomenti per contestare il governo ce ne sono, a partire dallagiustizia, se vogliamo fare un solo esempio dato che è uno dei miei campi».
La gente, però, ha risposto: «È scesa in strada sostenendo la democrazia e rigettando il tentato golpe dei militari – ha detto Giavarini – quindi effettivamente la situazione è tornata alla normalità».
Al momento pare di capire che in Bolivia ci sia più una sensazione di stasi, dunque bisognerà capire quale sarà la normalità a cui giungerà il paese.
«No hay plata!»
La situazione in Bolivia non è propriamente rosea. David Choquehuanca, vicepresidente dello stato Plurinazionale, in più di un’occasione nel corso del suo mandato ha ripetuto – pur senza fare nomi esplicitamente – che alcuni esponenti politici avrebbero rifiutato di approvare i crediti di cui vanta lo Stato. Sulle reti sociali dell’America Latina è diventato virale il primo video in cui Choquehuanca, durante un’iniziativa del suo partito, si è lasciato andare ad un commento quasi liberatorio, tanto era il peso specifico di quelle parole: «Stiamo in una situazione difficile: non ci sono soldi! (no hay plata!)». Un’eco di quella stessa espressione pronunciata durante il primo discorso da presidente dell’Argentina di Javier Milei: «No hay plata», scandendo ogni singola parola.
Difficile, ad ogni modo, dare torto a Choquehuanca, al netto dei soldi che devono tornare allo Stato e che non starebbero prendendo la via di Palacio Quemado: 1 boliviano attualmente vale 0,13 centesimi di Euro, viceversa per un Euro ci vogliono 7 bolivianos e 70 centavos. Lo stipendio medio di un meccanico si aggira attorno ai 500 bolivianos, poco più di 60€. Da mesi perdura, poi, una situazione di instabilità legata alle riserve di carburante e l’evento di ieri ha scatenato una ancor maggiore irrazionalità da parte dei consumatori e dei trasportatori, tanto che l’Agenzia nazionale idrocarburi (Anh) ha dovuto emettere un comunicato in cui si invita alla calma e assicura come la «fornitura di combustibili» sia «garantita in tutto il paese». Si può ancora comprare carburante, dice l’autorità, ed è anche garantita la vendita ma le lunghe code di camion al confine con l’Argentina che durano da settimane suggerirebbero l’esatto contrario. Eppure, nonostante la situazione di crisi politica e di difficoltà economica, la Bolivia continua ad essere vista come meta d’emigrazione per persone provenienti da Haiti e dal Venezuela.
Ma perché Zúñiga ce l’aveva con Morales, al punto di dichiarare di volerlo arrestare, per la faccenda della candidatura alle presidenziali?
Tutto è cominciato più di un anno fa, quando l’ex presidente boliviano Evo Morales ha annunciato di volersi candidare nuovamente alle presidenziali del 2025.
Una data cruciale per la Bolivia: è l’anno in cui si celebra il Bicentenario.
Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato ed ora esistono due parti del Mas (una evista e l’altra arcista) che sono letteralmente l’una contro l’altra.
Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto.
Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell’Ibce (l’Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l’economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso.
Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo di quest’anno (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l’amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede.
Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al Mas tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas (uno arcista l’altro evista).
I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.
La stessa Almendras, insieme alle organizzazioni sociali del Tropico, ha aggiunto: «poiché l’“autogolpe” non è andato come previsto, cercheranno di arrestare l’ex presidente Evo Morales».
Ancora una volta le realtà sociali, civili e associative vicine all’ex leader del Mas ingaggiano lo scontro frontale con l’altra fazione del partito, citando anche (e soprattutto, verrebbe da dire) la questione del golpe che sarebbe stato programmato. Tesi confermata anche nel corso della conferenza stampa del dipartimento di La Paz del Mas (evista): «Il Presidente e il suo Vice stanno generando paura nel popolo boliviano. Quello che è accaduto ieri [26 giugno] è stato chiaramente pianificato dalgoverno: un autogolpe».
Non si arriverà all’arresto di Morales, come ha dichiarato Almendras, ma certamente l’eredità di Evo è pesante, tanto quanto quel blindato che è andato a “bussare la porta” di Palacio Quemado. Un peso specifico, quello di Morales, con cui non solo il Mas, ma anche la società boliviana tutta dovrà fare i conti. E se una gran folla di gente è scesa in piazza sostenendo la democrazia e il presidente Arce nel momento di maggior tensione nel pomeriggio di ieri, è altrettanto vero che attorno ad esse si stava iniziando a radunare una piccola (ma rumorosa) folla di evisti in cui veniva scandito: «Esto no fue golpe, esto fue teatro [non è stato un golpe, è stato un teatro]».
La società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che è impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua.
Certo è che oggi si è giunti ad un punto da cui difficilmente si riuscirà a tornare indietro serenamente.
Un altro manifesto [sempre a Santa Maria del Soccorso]
Foto di Adriano Pucciarelli su Unsplash
Non c’è più il manifesto di Lenin a Santa Maria del Soccorso. È stato strappato del tutto, fino agli ultimi brandelli. Per tre settimane il muro è rimasto “pulito” da ogni affissione.
Attorno al 15 del mese l’organizzazione italiana della Tendenza marxista internazionale ha provato ad attaccarvi due manifestini riguardo un’iniziativa che stavano promuovendo in quei giorni sulla lotta partigiana: uno è stato strappato e ne è rimasto uno solo. Ancora coraggiosamente attaccato al muro d’ingresso della fermata di Santa Maria del Soccorso.
È il giorno dopo il 25 aprile, in cui un lungo fiume di persone ha invaso le strade tra Villa Gordiani e Quarticciolo. È il giorno dopo la lieta marea.
In una delle due scuole in cui presto servizio quest’anno il ponte non è il 25 e il 26 aprile ma il 29 e 30, dunque mi incammino verso l’entrata della Metro B alle 7:30. Mentre cammino verso l’ingresso faccio un controllo delle cose toccandomi le varie tasche della giacca e dei pantaloni una dopo l’altra: moderna e attualizzata versione del tuca tuca di Raffaella Carrà. C’è tutto, anche la mascherina FFP2: per insegnare alla sezione ospedaliera serve ancora, nei reparti dell’ Umberto I è ancora obbligatoria.
Finito il servizio torno indietro con pensieri e sguardi avvolti dalle pagine di Meneghello e dai racconti di Malo, ma purtroppo arriva il momento di scendere. Salgo le scale per riemergere alla luce del sole e noto sull’altro muro di destra, quello che dà verso l’uscita di Largo Viola, un altro manifesto. È scritto a vernice rossa e a caratteri cubitali: «W Mario Fiorentini».
Non c’è la firma: la scritta è rossa.
Mi fermo immobile, anche questa volta, oltre i cancelli dell’uscita della metro e resto a contemplare la scritta rossa qualche secondo. Non vedevo un manifesto per Mario Fiorentini da un po’ e vederne uno mi ha fatto respirare aria fina di montagna.
È proprio vero, penso, quello slogan che ci ripetiamo (benché ovunque
collocati, dispersi e divisi): quando muore un compagno o una compagna
ne nascono altri cento.
E vanno in giro ad affiggere i manifesti in ricordo di Mario Fiorentini.
Lo spirito di chi crede non si abbatte facilmente, come nella scena di Italiani brava gente in cui i nazisti e i fascisti, tedeschi e italiani occupanti le zone limitrofe al Don, stuzzicano un gruppo di civili russi facendo cantare loro L’Internazionale a mo’ di sfregio.
Ma loro l’hanno cantata davvero e quasi non si fermavano neanche coi colpi dei mitra tedeschi.
Sono teste dure, i comunisti.
Menomale.
Tra Gesù di Nazareth e Karl Marx: la scelta (e la vita) di “Miguel”
Per chi volesse, questi sono i due link agli articoli scritti a Cairoma su Antonio Caglioni e sul sistema sanitario a 5200 metri d’altitudine: Il sacerdote rivoluzionario alla fine del Mondo e Sanità pubblica e privata in Bolivia. Cercando l’assistenza capillare, trovando disordine generale.
L’introduzione al libro di Bonalumi è firmata da Don Emilio Brozzoni, sacerdote come Antonio Caglioni (a cui è davvero difficile anteporre il don davanti al nome, ma questo – a parere di chi scrive – rientra tra i pregi piuttosto che nell’ambito opposto dei difetti), bergamasco come lui, ma fenomenologicamente agli antipodi.
Don Emilio nell’introduzione racconta di un episodio curioso: una volta ricongiuntosi con Riccardo Giavarini a La Paz (don anche lui ma da soli due anni), decidono di andare a trovare Antonio Caglioni a Viloco. Il viaggio è lungo, le strade non sono agevoli ma finalmente – dopo varie ore di fuoristrada – riescono ad arrivare là, “alla fine del mondo”, a cinquemila metri d’altezza, ai piedi delle montagne popolate dai minatori di stagno in cerca della vena grande.
È il 1990, è notte e – c’è da immaginarselo – c’era una stellata meravigliosamente impressionante, data l’assenza di lampioni e illuminazioni per le vie della cittadina. Don Emilio, che immaginiamo si fosse già abituato alla mancanza d’ossigeno, riesce a prendere sonno e a dormire piuttosto bene, almeno fino a quando viene svegliato di soprassalto.
Di colpo, i tre (Caglioni, Giavarini, Brozzoni) sentono di non essere più soli: Don Emilio si sveglia e pensa ai ladri. Poi si guarda intorno: “ma che si ruberanno mai, qua” (di certo lo avrà pensato in bergamasco).
È un attimo: un uomo armato fino ai denti gli punta un fucile: «Eres Miguel?! [Sei Miguel?]» gli chiede insistentemente.
Non sa di cosa stia parlando e il commando armato si fa insistente: stanno cercando un Miguel, ex prete mezzo italiano, mezzo tedesco, e loro, tutti e tre italiani (due consacrati e un laico), senza documenti, sembravano essere il bersaglio perfetto. Miguel si sarà nascosto da quelle parti, ai piedi delle montagne popolate dai minatori per sfuggire allo Stato.
Però don Emilio non era Miguel e, nel testo d’introduzione al libro di Bonalumi, scrive un aneddoto molto divertente di quella notte in cui, dopo aver conosciuto personalmente Riccardo Giavarini, sono sicuro che si sia verificato esattamente come don Emilio ha raccontato: nel mezzo del trambusto, di uomini armati che fanno irruzione a casa di don Antonio, Riccardo cerca di placare gli animi chiedendo se – in piena notte – prendessero un caffè per poter parlare e chiarirsi.
«[…] Mi fanno alzare dal
letto (mani in alto), mettere pantaloni, scarpe e giacca a vento.
Bontà loro, niente manette ai polsi. Mi vogliono immediatamente
portare a La Paz. Riccardo intuisce che la situazione è grave e
vuole intavolare un minimo di dialogo: “Prendete un caffè o un tè?
Siete stanchi e la strada è lunga”»1.
Ma chi era Miguel?
«[…] Alle tre di notte
cinque di loro con il mitra circondano la casa di don Antonio e tre
in borghese sfondano la porta. Sono i tre che mi ritrovo davanti con
le pistole puntate. Finalmente viene a galla il motivo di questo
trambusto. È stato rapito il figlio del padrone della Coca Cola in
Bolivia. È ricercato un “terrorista” (così lo definiscono)
altoatesino, da ragazzo studente in un seminario di gesuiti,
impegnato politicamente con gruppi estremisti… Il filo logico è
chiaro. Hanno davanti un italiano, senza passaporto, col breviario,
nella casa di padre Antonio2,
in una regione fuori dal mondo. È lui. È Miguel. Sentono già
profumo di promozione».
Ma facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro.
A te che leggi: abbi pazienza. Sarà piuttosto lunga.
Il comandante Gonzalo va alla guerra
«Caro Fratello, il tempo
speso con i minatori di Potosì mi ha avvicinato alle persone. Le
cose per la Bolivia si stanno mettendo molto male. Il peso è stato
svalutato, i salari sono rimasti stagnanti: per le strade è
possibile vedere persone che piangono. Sono molto scioccato e solo a
vederli anche i miei occhi si appannavano»3.
«All’ultimo anno del
liceo, in occasione degli esami di maturità, Michael conosce un
missionario del seminario teologico di San Giuseppe di Bressanone, e
resta così colpito dalla sua figura che decide di seguirne la
strada. Quando comunica ai genitori la volontà di farsi prete e
diventare missionario, la sorpresa non manca, ma i segni premonitori
dii una vocazione religiosa erano già stati avvertiti in famiglia»4.
Si rende conto di essere in un’isola dorata e quel mondo, l’Occidente, già non gli basta più: vuole stare a contatto con chi ha davvero bisogno del messaggio di Cristo e della sua potenza rivoluzionaria.
Si rende conto di essere fortemente attratto dalla Teologia della Liberazione e dal comunismo: studia gli scritti di Karl Marx, si interessa di quel che accade in America Latina e di quello che i Gesuiti stanno portando avanti nel Continente.
Nel 1982 è a Cochabamba dopo un viaggio di «147 ore fra autobus e treno»5 ma, anche lì, i vestiti sono stretti, metaforicamente parlando:
«La mia opzione politica è
un’opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se
non una soluzione, per lo meno un compito e una speranza. Per questo
motivo non esiste, nel mondo dei lavoratori, un solo gruppo politico
che non sia in qualche modo marxista […] il marxismo è la via
maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che
costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non
con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale
sistema»6.
«In confronto al “popolo
semplice” viviamo in una casa di lusso. […] Con alcuni colleghi
abbiamo pensato di modificare l’orario delle lezioni, della
preghiera e della celebrazione eucaristica in modo tale da avere la
possibilità di fare qualcosa, di parlare con la gente, di
condividere i suoi problemi. Questa possibilità ci è stata negata.
[…] “È come se io non vivessi in Bolivia, ma in un’isola”,
pensa uno di loro. Dobbiamo imparare ad amare i poveri. Lo chiamiamo
“giocare ad esser poveri”. Al contrario noi non vogliamo giocare,
ma vivere a contatto con i poveri in maniera autentica. E questo
signiffica, in maniera molto semplice, condividere la loro vita. […]
Se dovessimo arrivare alla conclusione che questa nostra strada
nella Compagnia dle Gesù non ci può portare laddove noi vorremmo,
siamo pronti a cercarla altrove»7
L’animo di Michael è in continuo fermento e ricerca: si iscrive all’Università Mayor “San Andrés” (Umsa) in cui entra in contatto con i gruppi marxisti (trotskysti, marxisti-leninisti ma anche socialisti e socialdemocratici. La Bolivia è un paese che non trova mai quiete, politicamente e socialmente parlando: sono anni difficili e quel che in Italia abbiamo definito “trasformismo” a fine ‘800, nel paese più povero dell’America Latina rappresenta la normalità.
Scriveva il «Manchester Evening News» nel 1960:
«In Bolivia le rivoluzioni
sono quasi [da considerare] uno sport nazionale. Ce ne sono state 179
negli ultimi 130 anni. Una volta è capitato che ci fossero anche tre
presidenti in uno stesso giorno»8.
Tutti i presidenti, non militari, succeduti all’ultimo golpe, sono riconducibili al Movimento nazionalista rivoluzionario e al Movimento della sinistra rivoluzionaria ma è un chiaro esempio di “socialist sounding”: le alleanze, pur di conservare il potere ottenuto dalle elezioni, fanno convergere interessi molteplici. Interessi rappresentati anche dai partiti di ex militari e apertamente anticomunisti-socialisti e dichiaratamente fascisti.
Strana idea della rivoluzione, strana idea di sinistra.
Nothdurfter guarda, vive tutto questo ed è esterrefatto: il paese langue, la politica sbandiera una rivoluzione che non vuole iniziare (figurarsi se voglia un giorno portarla a compimento!) e i marxisti sono divisi. Bisogna far qualcosa, pensa Michael.
Inizia la sua esperienza con il teatro popolare nelle «borgate proletarie e nelle zone minerarie» mettendo in scena spettacoli che denunciano ingiustizie sociali e lo sfruttamento delle masse. Insieme a quest’attività, si avvicina sempre di più alle idee di Ernesto Che Guevara: c’è bisogno della rivoluzione. Quella vera, però, quella che si fa con le armi.
Nel novembre 1986, in un’altra lettera ad Othwin, dichiarerà la sua intenzione ma in lingua spagnola:
«D’ora in poi ti
scriverò sempre in spagnolo, perché non mi va che la mamma legga le
mie lettere dirette a voi. Non potrebbe capire le mie attitudini
“estremiste”»9.
«[…] La sinistra
boliviana sta vivendo una crisi profonda nella quale nessuno si
salva. Per questo motivo bisogna costruire qualcosa di nuovo. […]
Non sarà facile. […] Occorreranno molte ore di discussione, ma
soprattutto molti giorni di silenziosi sacrifici, e semplice
dedizione, molte vite e molti morti, molte lacrime e molto sdegno,
innumerevoli momenti di solitudine politica, di dubbi e debolezza
ideologica. Io, però, sono deciso – assieme alla mia
organizzazione – per dare tutto ciò che posso dare d me stesso,
poco a poco, accelerando ogni giorno il ritmo»10.
«Mi trovo più o meno
d’accordo con quanto sostiene Lenin in Stato e Rivoluzione in
relazione alla necessità di farla finita con lo Stato stesso, che
implica violenza rivoluzionaria. O con quanto dice il Che: “Non
esiste pratica rivoluzionaria senza lotta armata”. Senza dubbio,
però, bisogna contestualizzare. Tatticamente la violenza può essere
controproducente, ma dal punto di vista strategico rappresenta una
necessità imperiosa»11.
Passano gli anni, cruciali, 1986 e 1987, dopodiché è rivoluzione: il clima politico (o, per meglio dire: il caos politico) presente in Bolivia favorisce l’inclinazione e l’opzione – per citare Nothdurfter – per la lotta armata.
«Considero un compito
principale della mia vita contribuire a condurre una vera rivoluzione
in Bolivia e in qualunque altro posto mi tocchi vivere»12.
La prima vera operazione (e anche l’ultima) si chiama operazione Bautizo: si dovrà rapire un pezzo grosso del capitalismo boliviano, uno che ha implicazioni anche con l’economia americana. Il nome ricade su Jorge Lonsdale, presidente di Vascal S.A., azienda concessionaria unica per la distribuzione della Coca-Cola (e bevande del gruppo statunitense) in Bolivia. C’è anche il nome, ora, del gruppo: Comision Nestor Paz Zamora (Cnpz).
Il nome scelto non è casuale: Jaime Paz Zamora, presidente boliviano appena eletto, è rappresentante del Movimento della sinistra rivoluzionaria ma per mantenere il controllo dello Stato – e traffici a cui s’è accennato sopra – non ha esitato ad allearsi con i fascisti dell’alleanza nazionalista vicini a Banzer Suarez. Scrive Miguel:
«Nestor è il fratello
dell’attuale Presidente della repubblica ed è morto durante
un’azione di guerriglia a Teoponte. Nestor è l’opposto di Jaime:
il primo era un rivoluzionario e cristiano convinto e come tale si è
comportato sino alla morte. Il secondo si è alleato con l’ex
dittatore Hugo Banzer»13.
Per quanto possa essere crudo e atroce, è l’epilogo di chi aveva, senza troppi mezzi, dichiarato guerra, spinto dall’idealismo e dall’ardore romantico e rivoluzionario ad un nemico più grande, meglio organizzato e, sebbene rappresentante una “democrazia dalle ginocchia fragili”, sicuramente più strutturato della Cnpz. Nel documentario di Pichler, uno dei sopravvissuti agli arresti (tutti venticinquenni, cristiani e comunisti), chiamato in causa dal regista, dirà che Miguel era il più idealista e che dava a tutti una grande forza d’animo (sebbene negli ultimi tempi si sentisse molto isolato16) ma era anche molto impreparato.
«Lo eravamo tutti [molto impreparati]: era una
cronaca di una morte annunciata».
| Tra le strade della regione di Araca |
«[…]
So bene che nessuna delle
persone con cui convivo potrà mai darmi un diploma o un titolo di
studio, ma secondo questa logica Gesù sarebbe diventato un fariseo e
non sarebbe mai stato crocefisso. Io non sono Cristo, ma non intendo
in alcun modo diventare un fariseo, ce ne sono fin troppi.[…]
Dopo la guerra fredda
arriva la calda “pax capitalista”, la pace che per noi si chiama
“guerra di bassa intensità-alta probabilità”, la pace dei
ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di
meno. Per l’Est e per l’Ovest “libera economia di mercato” e
“stato di diritto”; per il Sud, la guerra e lo scambio di merci,
soverchiante e iniquo: il neoliberismo.La principale questione è
l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta
dicevano chiaro e tondo: socialismo! Il cosiddetto socialismo reale
è, però, in crisi profonda e ora troppi gioiscono per la presunta
fine del comunismo. In questa logica, però, non dovrebbe più
esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione.La teologia della
liberazione, invece, esiste e non ha nulla a che fare con
l’Inquisizione. I movimenti di liberazione dell’America Latina
hanno così poco a che vedere con Stalin…So di non essere stato un
buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di
questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io
faccio ciò che devo fare. Non pretendo che mi comprendiate, ma
dovete capire che io agisco secondo coscienza, e che auguro solo il
meglio a voi e a tutti gli altri. Avrei preferito tacere, ma credo di
esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e
l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche col rischio di
commettere degli errori».
NOTE
1Luca
Bonalumi, Il prete che mirava in alto,
p.10, 2016, Edizioni Gruppo Aeper, Torre de’ Roveri (BG).
2Nelle
medesime pagine don Emilio, a proposito della stretta sorveglianza
delle autorità di polizia nei confronti di don Antonio, accenna
alle vicende del libro di Bonalumi scrivendo:
«[…] al
posto di controllo, i gendarmi notano al volante un certo padre
Antonio, da tempo sotto stretta sorveglianza per le tante vicende
raccontate in questo libro; Riccardo, un volontario italiano ben
conosciuto per i numerosi progetti in atto insieme a uno
sconosciuto».
3Da
una delle lettere scritte da Michael al fratello Othwin contenuta
sia nel libro di Cagnan che nel documentario «Der Pfad des
Kriegers» di Andreas Pichler, 2008
4Paolo
Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.21, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).
5Avendo
avuto esperienza diretta dei trasporti e delle strade boliviane,
quella di Nothdurfter non è stata un’iperbole.
6Lettera
al fratello Othwin scritta a Cochabamba e datata 31 dicembre 1982.
Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.28,
1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).
7Ibidem.
8s.n.,
On the top of the world, 14 ottobre 1960, «Manchester
evening news».
9Paolo
Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.42,
1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).
10Ibidem.
11Ibidem.
12Lettera
all’amico Ludwig Thalheimer del 6 aprile 1988, citata nel volume
di Cagnan.
13Paolo
Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.80,
1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).
14Cagnan
ne elenca sette.
15Nelle
sue ultime lettere si definiva “guerriero”.
16«Sento
profondamente il silenzio dentro di me, la solitudine imposta dal
mio destino [aveva definitivamente rotto con la sua ormai ex
fidanzata], questa congiunzione di fattori e circostanze. Mi sono
scappate alcune lacrime ma non mi arrendo al mio dolore. Il
guerriero non può evitare la sofferenza ma non si lascia mai
sopraffare da essa». 18 agosto 1990.
Cuneo rosso a Santa Maria del Soccorso
Foto di katalin gyurasics su Unsplash
Un mese fa ricorrevano due date storicamente importanti: la nascita del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) e la morte di Lenin. Entrambi i fatti sono avvenuti il 21 gennaio sebbene il secondo a distanza di tre anni dal primo: il Pcd’I è stato fondato al Teatro San Marco di Livorno il 21 gennaio 1921 e Lenin è morto a Gorki il 21 gennaio nel 1924.
Il 21 gennaio 2024 qualcuno ha affisso un manifesto dedicato a Lenin all’entrata della fermata di Santa Maria del Soccorso della Linea B di Roma: ha resistito per un paio di settimane.
Ho subito immortalato il manifesto a forma di freccia, immagino realizzato appositamente per ricordare il celebre quadro di Lissitzkij, e ogni giorno andavo al lavoro un po’ più felice: anche se ho abbandonato l’attività militante, c’è qualcuno che continua e ricorda. Mi sono sentito di nuovo parte di qualcosa: comunque meno isolato e più compreso.
È bastato poco, in fondo: è bastato un manifesto.
Succede, come capita spesso in questi casi, che qualcuno della parte avversa noti il manifesto e si preoccupi di andare prima ad imbrattarlo e successivamente proceda a strapparlo (ad oggi il manifesto resiste ancora nella sola parte del volto di Lenin, sebbene strappato in più parti).
Ma la cosa che mi ha più colpito e destabilizzato è stata la sequenza di azioni che si sono riversate sull’affissione.
La prima: una scritta a pennarello, dunque visibile solo se l’occhio del passante si fosse avvicinato molto, a caratteri cubitali: “MERDA”.
La seconda: il manifesto strappato nelle parti in cui risultava più facile l’operazione.
Non appena ho notato la scritta col pennarello nero mi sono fermato davanti al manifesto con le mani nelle tasche dei pantaloni. Istantaneamente ho ripensato ripensato ad un film: La marcia su Roma. Una tragicommedia in cui i protagonisti, Gassmann e Tognazzi, decidono di intraprendere la marcia su Roma (per l’appunto) dopo aver aderito al movimento dei fascisti, allora ancora intriso di sansepolcrismo. Gassman, furbesco traffichino che viveva millantando di essere stato reduce della Prima guerra mondiale chiedendo elemosina e vivendo sulle spalle degli altri in virtù di una condizione pregressa inventata (reduce perché coscritto non “per spirito patriottico”), riesce a convincere ad aderire al fascismo un Tognazzi che interpretava un cristiano pienamente sfiduciato nei confronti della politica ed economicamente sul lastrico.
L’opera di persuasione è la seguente: leggere allo stremato Tognazzi tutto il programma di Piazza San Sepolcro. Istituzione della Repubblica, suffragio universale, giornata lavorativa di otto ore, redistribuzione delle terre, sequestro dei beni delle congregazioni religiose e via dicendo.
La Storia suggerisce che i binari della propaganda sono spesso binari morti: dopo il ’22 rimase il Re, ci fu il concordato, la giornata lavorativa rimase invariata (e le condizioni dei lavoratori peggiorarono) e via dicendo.
Tognazzi ci casca (la redistribuzione delle terre era un punto troppo importante perché potesse venir ignorato: sognava di diventare proprietario terriero) e anche lui decide di indossare la camicia nera: insieme salgono sul camion per la marcia su Roma e ad ogni tappa – qui sta il nesso comico ma anche tragico – si rende conto che i punti del programma che gli era stato annunciato trionfalmente vengono tutti disattesi, uno dopo l’altro.
Arrivati in una città per una sosta lungo il tragitto, un giovane Mario Brega (proprio lui) scende dal camion in cui erano anche i nostri protagonisti per unirsi al gruppo di camice nere che stavano dando fuoco ad una tipografia socialista. I fascisti già presenti sul posto, prima dell’arrivo dell’ultimo gruppo, stavano buttando dalle finestre quel che trovavano, compresi dei quadri e delle immagini contenenti dei simboli ideologici che erano affssi all’interno della tipografia. La prima raffigurazione che riversano a terra con violenza è quella di Lenin, su cui una camicia nera sfoga tutta la sua frustrazione colpendone a manganellate il volto della riproduzione. La seconda parte della furia spetta a Marx: «buttalo giù quer capoccione», urla Gassmann il quale, proditoriamente, osserva la scena stando un passo indietro.
Canti e controcanti di voci mainstream (e non) affermano oggi la fine delle ideologie, deridendo chi ancora vi rimane attaccato e – peggio – utilizzando il termine in senso dispregiativo come sinonimo di grettezza culturale e ristrettezza di visione. Costoro, di solito, sono poi indulgenti verso la peggiore ideologia (certi che non andrà a ledere l’apparato come non ha fatto in passato): ne hanno assimilato ogni stortura e ogni sfumatura, sia essa politica (in prassi e in teoria), sia essa morale.
L’importante è cancellare ogni riferimento a quell’idea (l’altra, eh) che, terminata in tragedia con lo stalinismo, aveva rovesciato l’ordine costituito e abbattuto il regime degli Zar, aveva dato la pace ad una nazione martoriata, aveva dato speranze e orizzonti al mondo intero.
E continua e continuerà a farlo per l’eternità.
Nonostante le scritte oscene sui manifesti (che manco si leggono, en passant).
Nonostante l’esigua minoranza e l’inadeguatezza dei suoi rappresentanti.
Scusaci, Lenin.
Non faremo morire l’idea, nonostante la fase, la situazione, nonostante noi.
Scusaci Lev.
Tempo di gioire: seconda vittoria consecutiva (1-3) al “Moscarelli” [con pagelle – ma non vi ci abituate troppo, eh]
Il Real in 10 sembra voler continuare a dire la sua ma la difesa granata (ad eccezione di qualche momento di defaillance) tiene bene, sebbene mister Amico abbia scelto di far riposare Pompi e Chieffo (che comunque entrerà al 34’st per sostituire Mascioli iuior).
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| “Chi viene vale, chi non viene non vale” |
Il tabellino della quattordicesima giornata di campionato | Seconda Categoria Laziale | Girone F
ACCADEMIA REAL TUSCOLANO CALCIO – BORGATA GORDIANI 1 – 3
MARCATORI: 18’pt (rig.) Mascioli M (BG), 42’pt Cirmizi (RT), 9’st (rig.) Mascioli M (BG) 37’st Cassatella (BG)
ACCADEMIA REAL TUSCOLANO CALCIO: Mariani, Plebani (33’st Vitelli), Rotondo, Arrigoni, Mazza, Perrozzi, Pepperosa (6’st * Barbati), Pascucci, Cirmizi (19’st Paolacci s.n.), Trombetta (33’st Marini), Ladogana PANCHINA: Cecilia, Catalano, Grappasonni. ALLENATORE: Fabrizio Saccucci
BORGATA GORDIANI: Poma, Piccardi, Colavecchia, Mascioli F. (34’st Chieffo), Mascelloni (11’st Alfonsini), Chimeri, Di Stefano (38’st Ciamarra), Cassatella, Chiarella (29’st Cicolò), Mascioli M. (49’st Barsotti), Proietti PANCHINA: Capuani, Pompi, Casavecchia, Corciulo. ALLENATORE: Fabrizio Amico
NOTE: Espulso al 9’st Mariani (RT) per doppia ammonizione. Ammoniti: 17’pt Mariani(RT), 22’pt Trombetta (RT), 27’pt Piccardi (BG), 2’st Mascioli M (BG) per simulazione, 6’st Mariani (RT), 15’st Colavecchia (BG), 44’st Cassatella (BG). Angoli: Accademia Real Tuscolano Calcio 1 – Borgata Gordiani 2. Recupero: 1’pt – 6’st



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