School drama (atto unico)

Il primo settembre significa “presa di servizio”, perlomeno se sei ancora supplente. Se sei di ruolo puoi stare tranquillo fino al primo collegio docenti, collocato immancabilmente nella prima settimana di settembre. Ad accoglierti nella scuola x/y (in ogni scuola) si mostrano davanti ai tuoi occhi, come fossero su di un palcoscenico, tutte le maschere della commedia dell’arte della scuola.
E sebbene stia parlando di una scuola del nord Italia, in questo ambito le differenze con Roma sono minime.

C’è il bidel… personale ATA che viene dalla Sicilia e inizia a fare il simpatico mostrandoti il plico di fogli di svariate pagine da compilare minuziosamente, in cui dovrai dichiarare le medesime cose ad ogni pagina (servizi svolti, numero di ore, domicilio, residenza e via dicendo). Ti porge il foglio e ti fa: «Bene professore, adesso ci vediamo tra un’oretta», sorride e ti indica l’aula in cui ci sono altri colleghi che stanno svolgendo tale lavoro amanuense.

Entri nell’Aula zero, saluti con un timido “buongiorno” e una dopo l’altra compaiono le maschere sul proscenio dell’anno scolastico che sta riprendendo: c’è la collega di scienze che ha 50 anni che ti chiede sottovoce (come se stesse copiando ad un compito in classe) se bisogna davvero compilare tutto per così tante volte; c’è la collega quarantenne che sta prendendo servizio per il ruolo e sbuffa ad ogni foglio rumoreggiando che siamonel2025eiononsoperchécifannosperecarecarta, oppure l’Amazzoniaciringrazierà o ancora machebisognoc’ècheiodicatuttequestecosenonpossologgarmiconloSpid?; c’è il supplente di scienze motorie che viene già in tuta, ai piedi ha delle Hoka blu oltremare e verde menta e mastica rumorosamente la gomma. Davanti a te la collega siciliana sulla trentina compila diligentemente senza far motto: ha il telefono (un iPhone ultimo grido) messo a tracolla com’è di moda ultimamente, come se fosse una borsetta. Sa tutto quello che deve compilare alla perfezione. Lo sa perché lei ha conoscenze. Ha parenti che lavorano al ministero e le mandano delle soffiate su graduatorie, leggi e normative vigenti. Lo sa perché si è trasferita da Marina alta di Torregrotta Montana bassa a Bergamo su segnalazione di una cugina di secondo grado la cui zia, osteopata, ha la domestica che ha una sorella dirigente del Ministero a Roma che le avrà detto più o meno così: «Vai a Bergamo perché la provincia di Marina alta di Torregrotta Montana bassa per la tua classe di concorso è satura». Di conseguenza il legame con questa conoscenza si fa incessante: la collega siciliana sa tutto e conosce ogni procedura ma a metà compilazione (cascasse il mondo) si gira chiedendoti se bisogna compilare anche il modulo per il ritiro di persona dello stipendio presso le Poste Italiane. È uno di quei moduli che spesso non vengono neanche consegnati per la compilazione. Lei lo sa che non va compilato ma vuole la conferma anche da te. Ha le scarpe a punta di colore giallo fluo e tacchi altissimi, un’orrenda camicia a fiori di un filato plasticoso che manco mi nonna e le unghie lunghissime con dei finti (spero) strass di tanto in tanto sul medio, l’anulare, l’indice.

Termini la compilazione, vai alla segreteria del personale e ti metti in fila. Davanti a te c’è la collega neo mamma (maglietta girocollo sotto ad un maglione pure girocollo di colori diversissimi, borsa gigante al seguito, Stan Smith ai piedi) che si presenta subito chiedendoti delucidazioni sulla legge duemilatrentanove comma secondo protocollata nel marzo ’23 (il cui aggiornamento giace da mesi presso Palazzo Madama per un cavillo burocratico) secondo cui anche lei potrebbe aver accesso ad un giorno in più di permesso per motivi familiari. Fai spallucce perché non sei a conoscenza di quella specifica legge ma la conversazione va avanti sulle scuole in cui avete prestato servizio. Tocca a te: consegni il plico compilato alla segretaria che lo riceve al di là dal vetro, di quelli con il foro tipo ufficio postale o azienda del trasporto pubblico locale. Alle sue spalle noti una cartina fisica enorme della regione Basilicata, evidentemente posta a rimarcare il luogo di provenienza della maggior parte degli impiegati. Hai la tua chiavetta usb in mano, quella con tutti i documenti che occorrono per la validazione della supplenza e per le verifiche delle attestazioni e delle certificazioni: te la sei preparata dall’anno scolastico 2021-2022, da quando la succursale presso cui lavoravi ti aveva chiesto di fornirgli una cartella con tutti i documenti. Da quel momento in poi aggiorni quella chiavetta e ogni anno la presenti alla presa di servizio e anche oggi la porgi alla segretaria la quale, tuttavia, ti spiazza: «Riesce a mandarmi la documentazione via mail?».

A Bergamo dicono così, quando devono chiederti una cosa: «riesci a *infinito del verbo*»: certo che ci riesco ma ti stavo agevolando. «No, meglio via posta elettronica» e ogni volta che una segretaria dice per esteso “posta elettronica” ti ricordi del tuo vecchio “Windows95” costato ore di urli da parte di tuo padre che si era incagliato nel dialogo con l’MS-DOS e che ti litigavi con tuo fratello per giocare a GrandPrix2 (in cui cercavi di vincere le gare prendendo la Minardi o la Tyrrel ma finivi sempre col motore in fiamme).

Esci dalla segreteria e arriva la collega di storia dell’arte. Ne individui subito la materia d’insegnamento perché indossa un mucchio di monili: ha anelli su tutte le mani, orecchini presi al mercatino di Cornareggio Montano alto da un hippie con la barba che le ha letto la mano prima di concludere l’affare.

Davanti a te, nel grande spazio presente all’ingresso di ogni scuola, passa un signore partenopeo che sta parlando al telefono parlando del Napoli calcio e della formazione della prossima partita di campionato in un dialetto molto marcato. Chiude la chiamata e si rivolge a una collega molto più giovane che passava di lì: «Voi siete di materia sciendifica?», lei scuote la testa e dice di essere di francese. Ma lui prosegue: «No è che io sono assistende di lab(b)oratorio ma quessS’anno sòno su sosSègno». La collega, che vorrebbe scappare, si limita ad annuire.

E infine arrivano colleghe e colleghi che sono stati nominati nuovamente in quella scuola che iniziano a chiamare tutti per nome: si avvicinano a tutti schioccando le labbra sulle guance dei collaboratori e dei vice del preside, già che ci sono salutano anche te come faceva fantozzianamente Calboni a Cortina.

È proprio ricominciato l’anno scolastico.

[Questo post è frutto della fantasia dell’autore. Gli stereotipi sono stereotipi e non c’è riferimento alcuno ad alcuna circostanza in particolare. Si satireggia.]

Una scuola su misura del mercato del lavoro e dei privati – [Atlante Editoriale]

Foto di Nathan Dumlao su Unsplash

Termine degli studi dopo quattro anni per tutti gli indirizzi e cambio di nomenclatura anche per gli istituti tecnici. Queste parrebbero essere alcune tra le modifiche del Gruppo di lavoro diretto dal prof. Giuseppe Bertagna: il documento, diffuso dalla Flc Cgil, è «risalente ai primi mesi del 2023» ed è stato «redatto da quattordici esperti» coordinati dal docente sopra citato.

La relazione finale del Gruppo di lavoro è stata diffusa dal sindacato ma si tratta di un file pdf composto da fogli scansionati senza indicazione di data, firme e attestazioni che possano facilitare la determinazione di documento autentico: «appare strano – dicono dal sindacato – che di questo gruppo di lavoro non si sia avuta alcuna notizia, né pubblicazione di decreto istitutivo, come diversamente era accaduto nel 2001». Ma il governo Meloni non è nuovo a sorprese o a rotture di schemi istituzionali: d’altronde giungere ad un presidenzialismo de facto parrebbe essere la mossa della coalizione di centrodestra per poterlo introdurre anche de iure, andando oltre i progetti dei governi del trentennio trascorso.

Tutti licei, un anno in meno a scuola.
Il percorso scolastico quadriennale per tutti gli indirizzi di secondaria di secondo grado (cioè le superiori) parrebbe essere la bussola del documento della cosiddetta commissione Bertagna, così come sembrerebbe essere tornato in voga il cambio di denominazione degli istituti tecnici e dei professionali. Il percorso liceale si dividerebbe così in: Liceo con opzione classica o scientifica; Liceo tecnologico con tre opzioni (ICT, meccatronico e chimico-industriale) in accordo con il Ministero del Lavoro, le Regioni e le Province; Liceo Professionale o di Istruzione e Formazione Professionale con tre opzioni (sociosanitario, meccanico e alberghiero-ristorazione) finalizzato a ristrutturare il rapporto tra Istruzione professionale statale e Istruzione e Formazione Professionale regionale.


La proposta di legge c’è già.
Il lavoro della commissione va a posizionarsi in sintonia con la proposta di legge 1739 depositata ad aprile 2024 ma ancora non incardinata nell’iter parlamentare. Partita dalla deputata leghista Giovanna Miele, sottoscritta da altri quattro colleghi di gruppo, la proposta del partito di Matteo Salvini si sostanzierebbe nella revisione quadriennale di ogni percorso scolastico «eventualmente provvedendo all’adeguamento e alla rimodulazione del calendario scolastico annuale e dell’orario settimanale delle lezioni».
Una formula davvero molto generica che lascia spazio a molteplici interpretazioni sulla strutturazione dei percorsi scolastici della secondaria di secondo grado. Tanto nel documento del gruppo di lavoro coordinato dal prof. Bertagna quanto nella proposta di legge da parte di componenti del gruppo della Lega, il nord della bussola di questi interventi parrebbe essere un adeguamento del sistema scolastico al mercato del lavoro. La scuola andrebbe ad assumere un ruolo sempre più ancillare, come abbiamo già avuto modo di testimoniare. “Ce lo chiede l’Europa”: è il solito mantra che torna. C’è troppo divario tra l’Italia e gli altri paesi europei, stando al testo della proposta di legge Miele: «[la pdl] punta a ridurre il netto divario fra il nostro Paese e il resto d’Europa che permette di far uscire i ragazzi dalle aule a diciotto anni, come avviene da tempo, praticamente in metà dei Paesi dell’Unione europea (tredici su ventisette), tra cui la Spagna, la Francia, il Portogallo, l’Ungheria e la Romania, nonché nel Regno Unito».

E docenti?

Il mondo della scuola però ha già espresso il proprio diniego alla sperimentazione quadriennale nel corso del precedente anno scolastico: solo 171 istituti «al termine dell’istruttoria condotta dalla commissione tecnica del Ministero dell’Istruzione e del Merito sulle candidature pervenute, sono stati ammessi alla sperimentazione della nuova istruzione tecnica e professionale». Dirigenti scolastici e docenti hanno però già rigettato la sperimentazione negli organi collegiali preposti. Senza contare che i percorsi scolastici quadriennali porterebbero ad un evidente (e logico, verrebbe da dire) taglio del personale, nonché al dimensionamento di numerosi istituti scolastici.
Su questo la proposta di legge tace.
Eppure sarà inevitabile un taglio lineare a tutto il personale scolastico: i due concorsi fatti partire con i finanziamenti del Pnrr sembrano andare nella direzione opposta (dunque assunzioni) ma i numeri parlano di immissioni in ruolo consistenti come gocce in un oceano di aridità e di precarietà. Precarietà in cui, invece, continuano a navigare migliaia di precari in tutta Italia tra cui ci sono anche gli idonei del concorso Pnrr1 che hanno superato le prove scritte e orali ma sono stati respinti all’uscio.
Articolo pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/liceo-quadriennale-le-proposte-silenziose-del-governo/

Calvino e i bergamaschi (in una classe bergamasca)

«Prófe, scusi, ma a lei non sembra che il libro che ci ha fatto leggere [Il barone rampante] sia un po’ razzista nei confronti dei bergamaschi?».
La domanda giunge tagliente e a sorpresa dopo una buona mezz’ora trascorsa ad analizzare parti del testo del Barone rampante. A inizio novembre ho assegnato la lettura del romanzo di Italo Calvino: al rientro dalle vacanze di Natale ne avremmo parlato in classe. 
«Razzista? In che senso?», rispondo candidamente io. 
«Eh, potaprófe, adesso le prendo il passo: ce l’ho davanti agli occhi ma non riesco a ritrovarlo». Subito lo studente apre il libro e inizia a mettersi alla ricerca del passo incriminato. È questo qui (quasi all’inizio del romanzo):

«[…] I carbonai, sullo spiazzo battuto di terra cenerina, erano i più numerosi. Urlavano «Hura! Hota!» [sopra! sotto!] perché erano gente bergamasca e non la si capiva nel parlare. Erano i più forti e chiusi e legati tra loro: una corporazione che si propagava in tutti i boschi, con parentele e legami e liti. Cosimo alle volte faceva da tramite tra un gruppo e l’altro, dava notizie, veniva incaricato di commissioni.
– M’hanno detto quelli di sotto la Rovere Rossa di dirvi che Hanfa la Hapa Hota l’ Hoc! [porta la zappa sotto il ciocco]
– Rispondigli che Hegn Hobet Ho de Hot! [vieni subito giù di sotto]
Lui teneva a mente i misteriosi suoni aspirati, e cercava di ripeterli, come cercava di ripetere gli zirli degli uccelli che lo svegliavano il
mattino. […]».

Finisce di leggerlo ad alta voce: la classe ascolta, qualcuno ridacchia per la sua pronuncia stentata dello pseudobergamasco di Calvino, poi mi rivolge nuovamente la parola: «a lei non le sembra un po’ razzista?». Qualche compagno è d’accordo, qualcun altro no, alcune ragazze provenienti dall’alta valle dicono (mentre sorridono) che «assolutamente non è razzista: parliamo proprio così!».
Provo a fargli capire che si tratta di un romanzo il cui protagonista è un ragazzo della loro età o di poco più grande e che la scrittura di Calvino gioca, spesso, anche sul carattere iperbolico dei ricordi di infanzia o, comunque, della vita vissuta. 

Rilancia: «ho capito, prófe, ma a me sembra ancora razzista».
Contrattacco anch’io: Calvino non era (né può essere considerato) razzista, anzi. Voleva farci riflettere riguardo il nostro approccio nei confronti dell’altro: non c’era insulto nelle parole dell’autore quanto piuttosto stupore adolescenziale, ed entusiasmo conseguente, verso qualcosa di cui ancora non aveva fatto esperienza: «se dovessi dirti – provo a dirgli – che anch’io capisca il bergamasco stretto, probabilmente mentirei: le uniche volte che tento di pronunciare qualcosa in dialetto finisco per essere tanto ridicolo quanto di correre il rischio d’essere percepito come beffardo o quasi sprezzante nei confronti di quel linguaggio che ho imitato goffamente». In quel caso allora sì ci starebbe un bel romanissimo: ma che me stai a prende in giro? E poi, dico: «Calvino nel testo che hai letto pare avere un gran rispetto dei bergamaschi, piuttosto non ne comprende il dialetto… come non lo comprendo io»
«Ma neanche io lo capisco, prófe, mica parlo in bergamasco coi miei: lo parlano solo i miei nonni». 

«E allora come può essere razzista una cosa scritta da un uomo che: pare avere rispetto dei bergamaschi, non capisce il dialetto e che tuttavia prova ad utilizzarlo in un dialogo in cui il protagonista si sforza di parlarlo?», provo a controbattere.
«Forse il protagonista non è razzista ma voleva solo entrare in contatto con quel mondo, a suo modo», mi dice l’alunno. Le alunne dell’alta valle, quelle di prima, sorridono e annuiscono con la considerazione del compagno. 

Parliamo ancora del Barone rampante e poi torniamo all’analisi del periodo. Tutto questo senza intelligenza artificiale, didattica “innovativa” o dispositivi digitali ma con due strumenti indispensabili in ogni classe del mondo: un libro e la parola.

Studenti-atleti: tra “dual career” e frustrazione

Chi sono? Ragazzi di scuole superiori: quasi 50mila
in tutta Italia. Per le società sportive sono numeri ma spesso cadono
in forme depressive con ricadute sul rendimento scolastico.

«Il problema non è lo studio in sé ma il peso che ne deriva a
causa dello sport: oltre ai quattro impegni settimanali e la partita, la
società di cui faccio parte mi ha chiesto anche un piccolo extra per
poter allenare dei bambini, affiancando l’allenatore della squadra»
.
A parlare è Alfonso (nome di fantasia) studente di una scuola
secondaria di secondo grado della provincia di Varese, nonché calciatore
a livello dilettantistico regionale. Quattro impegni sportivi
pomeridiani più la partita nel fine settimana si traducono
nell’attivazione del Pfp, sigla che sta per
Percorso formativo personalizzato. Nel suo caso l’extra richiesto dalla società consiste nell’«affiancare
l’allenatore dei più piccoli» così da diventare figura di riferimento
per loro «anche se spesso le partite dei bambini le seguo io dall’inizio
alla fine»
.
Tripla sollecitazione e triplo impegno.

Didattica personalizzata

Il
Pfp va a definire lo status della peculiare condizione di
studente-atleta nell’ambito dell’agonismo e in quello della
sperimentazione di «studente-atleta di alto livello». Stando al
decreto ministeriale 43 del 3 marzo 2023 che disciplina ulteriormente la questione per questi ultimi, il Pfp è: «uno strumento» che favorirebbe «l’adozione di metodologie didattiche personalizzate finalizzate al successo formativo dello studente» per cui è concesso che egli possa fruire in modo alternativo delle lezioni «fino al 25% del monte ore» attraverso «videoconferenze», «piattaforme di e-learning predisposta a livello nazionale» o «altri strumenti individuati dagli Istituti scolastici». Non solo, nel decreto viene stabilita anche la possibilità di prevedere verifiche personalizzate.

Secondo i dati
del Ministero dell’Istruzione e del merito nel corso dell’anno
scolastico 23-24 sono state approvate 48.520 domande riguardanti
studenti-atleti di alto livello su una popolazione scolastica nazionale
di 2.727.637 studenti iscritti agli istituti secondari di secondo grado (
dati Istat relativi all’a.s. 22-23). La maggior parte di essi fa riferimento a federazioni sportive calcistiche (Figc o Lnd).

Chiara Sicoli, dirigente scolastica dell’I.I.S. Pacinotti – Archimede di Roma, racconta in proposito all’Atlante che queste organizzazioni «trattano meno bene i ragazzi» rispetto «ad altre organizzazioni afferenti ad altri sport». Stando al racconto della dott.ssa Chiara Sicoli, i calciatori portano con sé «problemi di disciplina» dal momento che «i
ragazzi che praticano calcio tendono a ‘fare spogliatoio’ anche in
classe: le stesse società sportive si interessano pochissimo del
rendimento scolastico dei loro iscritti tendendo piuttosto a trasmettere
loro valori non propri dello sport»
cioè «quelli tipici della finzione ai fini dell’ottenimento del rigore a proprio favore», roba da VAR o da moviolone di biscardiana memoria.

«Quando
ho preso parte al campionato in serie A2 di futsal ero in quinto
superiore e non avevo un Pfp: erano già scaduti i termini in cui si
poteva inoltrare la richiesta per la certificazione. La scuola non
considerava, evidentemente, il fattore escludente delle finestre di
mercato e il fatto che un atleta possa cambiare squadra da un momento
all’altro»
, a parlare ad Atlante è Arianna (nome di fantasia) ex studentessa di Liceo scientifico sportivo della provincia di Roma. Arianna si è ritrovata «ad essere catapultata in una realtà completamente diversa e con differente routine», rispetto a quella imposta da un campionato minore, «ma questo alla scuola non è interessato», anche se lei era parte integrante dell’indirizzo sportivo del liceo scientifico.

Studente-atleta o atleta-studente?

Essere parte dello sportivo non rappresenta, tuttavia, un automatismo che preveda l’istituzione de iure dello status di studente-atleta: «qualsiasi istituto può attivare i Pfp», ha dichiarato ad Atlante Paolo Notarnicola, presidente della Rete degli studenti medi (sindacato studentesco). «Lo sportivo non è necessariamente popolato da studenti che praticano sport ad alti livelli» ed entrare a farvi parte pare non sia cosa facile: «l’indirizzo
non nasce per offrire un’offerta formativa peculiare ma è sorto ‘al
contrario’: la scuola prende atto che ha degli studenti impegnati in
attività sportive, dunque trova il modo di armonizzare quelle attività
con la formazione scolastica. Di fatto è come se vigesse lo status di
atleta-studente e non di studente-atleta: l’offerta formativa si è adattata alle esigenze delle società sportive e non è accaduto il contrario». Sarebbe stata migliore, secondo Notarnicola, la condizione che avesse previsto: «una
scuola pubblica che apre la possibilità a tutti gli studenti (anche a
coloro che non hanno potuto avere accesso all’attività agonistica a
causa di impedimenti economici) di poter trovare il proprio
aggancio con società sportive». La graduatoria prodotta dalle scuole che attivano l’indirizzo sportivo assomiglia più «ad un numero chiuso»
che ad una vera e propria graduatoria di merito. Il parere del
sindacato studentesco è confermato da Camillo (nome di fantasia),
insegnante della scuola secondaria di secondo grado della provincia di
Ancona:
«l’impegno sportivo è del tutto predominante e la scuola viene percepita come ancillare
rispetto alle esigenze delle società sportive: si tratta di una scuola
disegnata attorno ai bisogni e alle necessità dell’atleta che,
incidentalmente, è anche studente»
. «Di fatto» spiega Camillo «si tratta di un indirizzo a numero chiuso» anche se non lo è formalmente. «Nonostante
non si preveda una prova d’ammissione (come avviene per il Liceo
musicale o coreutico), si opta per una scrematura che tenga conto dei
voti della scuola secondaria di primo grado e che riguardi anche
l’impegno sportivo pregresso dei ragazzi»
, racconta ancora il docente. Se non sei già tesserato di una società sportiva «il
punteggio, ai fini della graduatoria, risulta essere basso: diventa una
questione di classe sociale e di chi può permettersi che il figlio
pratichi sport agonisticamente
», sostiene Camillo.

Dual career e frustrazioni

Che
sia semplicemente la sana attività sportiva ad essere praticata a
livello agonistico o che, invece, rappresenti il salto d’essere
studente-atleta d’alto livello, la problematica è multiforme e
variamente sfaccettata: la
dual career [doppia
carriera] può essere interrotta bruscamente per un brutto infortunio o a
causa del fatto che si realizzi di non riuscire a sfondare davvero.
Ancora Camillo:
«il passaggio alla maggiore età dei ragazzi è
cruciale: tra la fine del quarto e l’inizio del quinto si determinano
una serie di delusioni amarissime – soprattutto per quel che riguarda i
calciatori – se dovessero rendersi conto che quella non è più una strada
percorribile, o comunque non sicura come avevano sperato che fosse fino
a quel momento. Capiscono, insomma, di essere soltanto numeri in un
mare di migliaia di ragazzi come loro: la prospettiva del professionismo
è lontana. In tredici anni di servizio ho visto solo due miei ex
studenti entrare a far parte dello sport-che-conta»
. Numeri che sembrano essere implacabili e che determinano anche «forme depressive generali con inevitabili ricadute sull’andamento scolastico». Arianna, d’altra parte, racconta: «nella mia classe solamente due su trenta sono riusciti ad arrivare al professionismo». Gli altri?
«Ci hanno puntato e sperato ma poi, come nel 99% dei casi, non ce
l’hanno fatta. Il problema è chi decide di puntare tutto sullo sport e
poi non riesce: spesso non ha un ‘piano B’. Ti ritrovi catapultato ai 20
anni realizzando che con lo sport non ci stai facendo più di tanto, non
ti ha dato un futuro e hai pure snobbato la scuola»
. La Preside Sicoli conferma: «è
un fenomeno che dovrebbe essere attenzionato maggiormente: se un
ragazzo non riesce a sfondare, entra in uno stato di frustrazione che si
ripercuote sulla scuola»
. Tuttavia, secondo Sicoli, questo non si verifica in tutti gli sport: «nel
calcio si contano più casi: se si infortuna un [giovane] calciatore,
nonostante sia promettente, viene generalmente abbandonato dalla società
sportiva»
. Il ragazzo non è lo sportivo o il promettente calciatore ma «il suo cartellino», afferma amaramente la Preside.

Notarnicola fa eco: «l’idea
che si possa acquisire il cartellino di prestazioni del ragazzo (di
fatto è come comprare un atleta, una persona) rappresenta
l’impossibilità di scelta da parte sua, quasi una negazione del diritto
allo studio. La società compie un ragionamento di mercato sul ragazzo,
come accade nel calcio moderno anche se
in nuce, facendo prevalere il contratto sulla sua formazione».

Si potrebbe pensare ad un alto tasso di abbandono scolastico da parte di costoro e invece Sicoli smentisce:
«si tratta di una bassissima percentuale: durante il mio lustro di
dirigenza ho contato un pugno di casi che hanno optato per l’istruzione
parentale, dunque una scelta specifica per intraprendere una carriera
che rappresentava un impegno
[sovra ordinario] in quella fase».

La
sperimentazione che riguarda lo status di studente-atleta di alto
livello dura, tuttavia, da dieci anni e Sicoli ritiene che sarebbe da
porre a regime con almeno tre fattori da cambiare radicalmente. Prima di
tutto,
«va fatta formazione ai docenti dal momento che non sono pienamente preparati ad affrontare la dual career». Secondo, elargire più fondi alle scuole e ai docenti: «per
la sperimentazione è richiesta la figura di un tutor che tenga contatti
tra docenti e la società sportiva; va redatto il Pfp e bisogna
controllare che i documenti provenienti dalle società siano idonei e poi
vanno caricati sulla piattaforma [preposta]»
. Generalmente nelle scuole si contano «7 od 8 studenti-atleti di alto livello: il Pacinotti-Archimede ne ha 125. L’ordine di grandezza è molto diverso». Terzo e ultimo: «le famiglie devono essere supportate e le società sportive responsabilizzate».


Articolo disponibile su Atlante Editoriale al link: https://www.atlanteditoriale.com/studenti-atleti-tra-dual-career-e-frustrazione/

Siamo tutti Aronne Piperno

La cartolina spedita dal Ministro prof. Giuseppe Valditara a tutti i
docenti, supplenti o di ruolo, come augurio in vista delle Festività
Natalizie.

Non molti giorni fa, ogni insegnante della scuola pubblica ha ricevuto un messaggio di posta elettronica recante una cartolina di auguri trasmessa a nome del Ministro dell’Istruzione e del Merito prof. Giuseppe Valditara.  

 Dato che il Ministro si premura di ringraziare i docenti per il lavoro che svolgono quotidianamente, vorrei ricambiare i sentiti ringraziamenti a S.E. il Ministro del Mim prof. Valditara. Lo ringrazio perché ho appreso, grazie al nuovo sistema di reclutamento dei docenti, una nuova condizione sociale, psicologica, nonché esistenziale, propria di chi scrive e di tutti coloro che hanno preso parte all’ultimo concorso ordinario che sono stati esclusi (nonostante avessero raggiunto un punteggio non basso).
Quale condizione? Quella di essere Aronne Piperno. L’aronnepipernismo è una nuova categoria antropologica e rappresenta una particolare condizione dell’animo.
Sicuramente qualcuno ricorderà la scena del Marchese del Grillo.

Un Marchese del Grillo stanco, dopo una nottata di scherzi e di bagordi, rientra in casa firmando (sommariamente e con superficialità) tutto quello che gli viene messo davanti agli occhi dal suo contabile personale. Lo stesso gli annuncia la presenza dell’ebanista Aronne Piperno, il quale chiedeva di essere regolarmente pagato a seguito di un lavoro di restauro chiesto dal Marchese stesso.

  

Non ripeterò le battute della scena perché sono stra famose. Mi soffermo, tuttavia, su un momento in particolare dello scambio fra i due. Il Marchese acconsente di far entrare Aronne Piperno ma Alberto Sordi (che nel film interpreta il nobile romano) vuole solo andare a dormire e non ha voglie di scocciature: decide, per puro sfizio, piglio e ribalderia, di non pagare il lavoro svolto dall’ebanista:

« […] Marchese del Grillo: Aronne tu lavori bene…

Aronne Piperno
: Grazie!

Marchese del Grillo: …bella ‘a boiserie, bello l’armadio, belle ‘e cassapanche… bello, bello, bello tutto… bravo… grazie, adesso te ne poi pure annà.

Aronne Piperno
: Non ho capito, Eccellenza.

Marchese del Grillo: Ah n’hai capito? Ho detto: adesso te ne poi annà!

Aronne Piperno
: Me ne devo annà? Ma io c’avrei…

Marchese del Grillo
: Che c’avresti?

Aronne Piperno: …il conticino!

Marchese del Grillo
: Ah c’hai er conticino? E dammelo sto conticino!

Aronne Piperno
: Ecco…

Marchese del Grillo: Ecco er conticino! Ecco fatto! [il marchese del Grillo strappa il conto di Aronne Piperno]».

Ma sono sicuro di non essermi spiegato. Sarò, dunque, più chiaro.

Un gran numero di insegnanti ha partecipato al concorso ordinario ma, date le regole prescritte dal bando, si è visto respinto all’uscio nonostante abbia superato scritto e orale.
Bene, bravo: «mo poi rifà er concorso», parafrasando la battuta di Alberto Sordi.

Se la cosa fosse successa poco più di un trentennio fa, lo scandalo sarebbe stato enorme. Eppure ci stiamo abituando a tutto.

Sappiamo, però, grazie al Ministro, di essere tutti Aronne Piperno. Perlomeno: io ho inteso di esserlo a pieno titolo. Ho «il conticino» in tasca, lo porgo al Marchese ma lui lo strappa davanti ai miei occhi: addio soldi (e addio ruolo!).

Grazie, dunque a S.E. Ministro dell’Istruzione e del Merito prof. Giuseppe Valditara, per  avermi fatto scoprire di appartenere a questa nuova categoria antropologica.

Contro la protervia della nobiltà, contro ogni ingiustizia: sempre viva Aronne Piperno!
Aronnepiperni di tutto il mondo: uniamoci!

Profe

La biblioteca del Prof(e). Richard Macksey a Guilford,
Baltimora, Stati uniti d’America

All’inizio c’erano le maestre dell’asilo che si facevano chiamare
rigorosamente per nome, posto immediatamente dopo la qualifica: maestra
Daniela, maestra Silvia, maestra Chiara e via dicendo. Gli si dava del tu
quasi per legge: quel posto doveva essere l’estensione di un luogo
familiare che avevi lasciato sul letto di casa poche ore prima.
«Scusa, maestra posso andare a bere?», e lei con un cenno della
testa ti diceva che si, potevi andare, l’importante era utilizzare il
tuo asciugamani con le iniziali cucite da tua madre ad hoc per evitare che il tuo andasse troppo in giro o che, peggio ancora, venisse scambiato con quello di altri.

Maestra era anche il modo con cui ci rivolgevamo alle elementari ma, già verso la quinta, si iniziava a dare del lei perché alle medie non c’erano più loro ma le professoresse. Il ruolo era lo stesso ma la figura si discostava leggermente: si faceva più imponente e più autoritaria. Quel lei
conferiva distanza e vicinanza: la prima era tutta a vantaggio di chi
stava «dall’altra parte della barricata», la seconda era –
paradossalmente – a vantaggio del discente che iniziava a prendere le
misure con il mondo oltre la maestra.

La professoressa era una sorta di übermaestra: sapeva tutto
di te anche se non ti aveva mai visto e si sforzava a dirti che dovevi
rivolgerti a lei con la terza singolare e con il verbo coniugato al
congiuntivo. Se coniugavi male o pronunciavi un fantozziano vadifacci ti toccava la flessione del verbo.
Inflessibile: appena sentiva un tu, diceva: «scusa, come?!».
Meravigliosa era la professoressa Fosca che, appena sentiva uno studente
della classe dire «dai» rivolgendosi a lei, scattava incalzandoti:
«dai?!? DAI?!?». Il più creativo era chi rispondeva: «DIA, DIA!» oppure
c’era chi si sentiva già in odor di medioevo rispondendo: «Scusi, scusi:
suvvia!»

Capitava, però, che nella foga del voler rispondere, in quel
frangente simile alla lotta fra oppressi chiamata “interrogazione dal
posto”, il termine professoressa si abbreviasse in «pessoré!»:
tutte le altre sillabe, evidentemente inutili, erano state sacrificate
per poter estendere verso l’alto il braccio destro o sinistro con
l’indice ben visibile. Più lo si alzava, più si era sicuri della
risposta che si dava.
Capitava, però, che l’abbreviazione da pié-veloce (pessoré!)
venisse attribuita anche agli unici due professori maschi del consiglio
di classe: don Angel e Pernaselci di musica. Un’anomalia bella e buona.
In quel caso l’accento sulla e finale non rappresentava l’invocazione al genere femminile dell’insegnante: jamais!
Era piuttosto un rafforzativo del professore in sé: come se
l’espressione fosse “OH, PROFESSOREE”. Con quella immaginaria doppia e che
evidentemente andava a caratterizzare l’interlocutore uomo con cui si
voleva intrattenere una conversazione, pur limitata in ambito
scolastico.

Con le superiori si dichiarava finita l’esperienza del pessoré: quel termine veniva abbandonato alla chiusura dei cancelli delle medie (scuolasecondariadiprimogrado).
Varcare le porte del liceo significava abbracciare l’idea che la
professoressa (donna) poteva anche essere un professore (uomo): non più
un’anomalia. Allora il termine si abbreviava naturalmente in «prof». L’abbreviazione
era una vera e propria ancora di salvezza: veniva accettata
dall’insegnante, uomo o donna che fosse, ed era tanto sbrigativo quanto
professionale: «hai sentito il prof. di greco?». Improvvisamente diventavamo tutti grandissimi perché utilizzavamo le abbreviazioni.

E così è stato anche nei primi anni di servizio dall’altra parte della barricata: «buongiorno prof», «salve prof», «ciao prof». Talvolta i più audaci ti chiamavano «professò», riprendendo l’abbreviazione che fu tipica del genere femminile riservata alla parte docente delle medie (scuolasecondariadiprimogrado).
Qualche ragazzo di qualche scuola di periferia osa, ma solo verso la
fine dell’anno e solo se c’è stato un buon rapporto, con un «ciao
professò» mentre si accinge ad entrare in aula con lo zaino su entrambe
le spalle, strascicando le suole delle scarpe grosse come carri armati (ma rigorosamente alla moda).

Qui a Bergamo è diverso. Non c’è il prof ma il profe. Con la o chiusa. Ed è una abbreviazione che calza a pennello sia in caso di insegnante uomo, sia in caso di insegnante donna. «Profe,
buongiorno!», ti dicono. Lo scrivono anche nei messaggi di posta
elettronica. Ma è una cosa che vale solo a Bergamo: in nessuna altra
zona della Lombardia c’è il profe: è tipicamente bergamasco.

È strana, neh, una sorta di unicum delle valli bergamasche nel rapportarsi con l’insegnante.
Strana… Ma, proprio perché è così, è anche molto tenera.

«Nun me po’ nterogà domani?»


Foto di Stefan Spassov su Unsplash

Dice: «Quindi oggi non me ‘nteroga? »
Dico: «Caro *** devo già interrogare cinque persone che il penultimo giorno di scuola si sono rese conto di essere insufficienti: non c’è troppo tempo, non credi?»
Dice: «C’è sempre domani»
Dico: «I voti però li devo inserire oggi» 
Dice: «Quindi lei domani nun lavora?»
Dico: «Certo che lavoro e tu domani verrai a scuola»
Dice: «Eh ma se nun me nterroga che ce vengo a fa»
Dico: «Perché comunque conta come assenza»
Dice: «Quindi lei lavora sempre tranne l’ultimo giorno de scola?»
Dico: «Io lavoro sempre, o ti è risultato diversamente? A me pare che so più le volte che non sei venuto a scuola de quelle quando c’eri. Come la mettemo?»
Dice: «Vabbè ma quindi se io me voglio fa interroga domani? L’altri prof ce nterogano»
Dico: «Okay: domani è l’ultimo giorno, però, caro ***»
Dice: «Vabbè io comunque oggi me giustifico»

La saliva

Foto di Fatih Yürür su Unsplash

 

La pigrizia, come la saliva, è una cosa importante.

O meglio: la saliva non è una cosa ma un «liquido incolore un po’ filante secreto da particolari ghiandole annesse al cavo orale», stando al vocabolario digitale della Treccani. La definizione è confermata dal vocabolario scolastico Zingarelli minore in cui si legge che la saliva è un «liquido incolore, filante».

È un liquido talmente importante per l’uomo! Esserne sprovvisti inficerebbe mansioni vitali come «la masticazione, la formazione del bolo alimentare, la deglutizione, la fonazione e la lubrificazione dell’esofago».

Saliva e pigrizia sono imprescindibili per la vita di tutti i giorni.

Se torni a casa dopo una mattinata scolastica in cui il meno ostile dei tuoi alunni ti ha detto che «tutto sommato ‘e cose j’o dette», volteggiando la mano destra a mo’ di piuma, mentre tu stai cercando invano  di far comprendere al fanciullo che Tiberio Gracco non era un console, il cognome è Gracco e non Cracco come lo chef Carlo e che, no, Quinto Fabio Massimo non può chiamarlo “l’imperatore Fabio” perché non è imperatore e non è un suo amico, abbandonare «il corpo lasso» sul letto al fine di riprodurre fedelmente la rappresentazione del “quattro di bastoni” (secondo le carte piacentine), rappresenta un valore importantissimo per la psiche e per il corpo.

Intendiamoci: in quel momento la saliva torna a fluire, le funzioni vitali dell’organismo riprendono a scorrere serenamente, il respiro migliora, gli affanni che fino a un minuto prima sembravano insormontabili, d’improvviso sembrano essere andati via in chissà quale regione remota dell’anima. 

Ecco, dunque che saliva e pigrizia sono un tutt’uno. 

Forse deve aver pensato a questo, in un lampo di genio, il collega che stava mettendo un braccio fuori dalla porta d’uscita di scuola non già per controllare se avesse smesso di piovere, quanto – piuttosto – per prendere delle gocce e farsele cadere sulla mano sinistra, mentre con la destra teneva in mano delle buste timbrate dalla scuola (che probabilmente sarebbero state utilizzate per contenere dei documenti ufficiali).

È stato un momento, un lampo.
Rimetto a posto lo zaino sulle spalle, esco dalla porta e mi rendo conto che sta iniziando a grandinare. Salutandolo, mi rivolgo a lui in tono assertivo-interrogativo: «Certo che piove forte, eh», dato che la sua posizione stava palesemente rievocando la celebre statua del discobolo e non riuscivo a capire perché lo stesse facendo, perché stesse bagnandosi l’avambraccio volontariamente.
«Eeeh sì, sì, ma a me serve solo un po’ d’acqua», mi dice sorridente e con accento che – ad occhio – era più vicino a quello di Lamezia Terme che a quello di Grumello al Monte: «non mi va di usà la saliva per chiudere le buste».

Se fosse stata una scena di un film, il sapiente regista avrebbe colto quel momento di silenzio prima del congedo tra i due e avrebbe fatto partire la celeberrima canzone di Enzo del Re: Tengo na voglia ‘e fa niente che, infatti, diceva:

Si a fatica era ‘bbona,
‘a cunsigliava o’ dottore

La cattiveria

Da ieri sera, attorno alle 20:00, gli uffici scolastici regionali di tutto il Paese stanno procedendo alla pubblicazione dei calendari di convocazione degli aspiranti docenti per il concorso cosiddetto «straordinario ter». Al di là di giudizi di merito attorno alla prova concorsuale, gli aspiranti insegnanti sono stati smistati là dove la burocrazia scolastica ha previsto lo svolgimento della detta prova scritta.

La palma d’oro alla cattiveria 2024 va all’USR della Toscana che ha convocato una parte degli aspiranti insegnanti all’Istituto superiore «Cerboni» di Portoferraio (Isola d’Elba).
Una prova concorsuale all’Elba durante il mese di marzo significa una sola cosa: abbiamo già il vincitore di diritto della “Palma d’oro per la cattiveria” di quest’anno (nonostante sia solo febbraio).

Per dirla à la livornese: oioi…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

N.B. il premio non esiste, non ci sono palme in palio ed è tutto frutto della mente di chi cura questo blog.

«Io non posso professare che degli interrogativi»

Lo spunto per scrivere qualcosa su Fiori italiani è arrivato ieri. Avevo finito di leggerlo mentre ero a La Paz, nei pomeriggi ‘paceñi‘ dei primi fine settimana in cui tutta la città pareva che all’unisono avesse reclinato la testa sul guanciale (giusto per un paio d’ore). Pensavo e ripensavo a quello che avevo letto (di cui devo essere molto grato a Massimo, vicentino doc, di avermi fatto scoprire la figura di Luigi Meneghello) c’era qualcosa che covava ma che rimaneva ben al di sotto degli strati di pan di spagna freudiano.

Ieri ho avuto uno scambio con un interlocutore – collega, si direbbe – della secondaria di primo grado. Mi chiede perché non mi avessero ancora chiamato per un incarico, perché il mio nome, dunque, non sia stato riportato nei primi due bollettini di convocazione pubblicati dall’Ufficio scolastico regionale. Gli spiego che mi hanno saltato in una classe di concorso – di nuovo, come lo scorso anno – ma che stavolta ho presentato reclamo e ho contattato il sindacato, così da capire come muovermi. 

«Ma per le scuole medie, invece, perché non ti hanno chiamato?», dice guardando da un’altra parte. «No», rispondo con un sospiro (già sapevo dove si voleva andare a parare), «non le ho proprio inserite le medie nelle Gps».
L’interlocutore allarga le braccia come in segno di resa: «Eeh ma allora non è che vuoi proprio lavorare, eh».
«Non ho capito», rispondo basito.
«Ma, almeno le medie, mettile!» a questo punto viene interrotto dall’altro interlocutore che dice, serenamente, ma col tatto di una scavatrice a otto benne: «è che non ha famiglia, può anche non lavorare». Paternamente, il secondo prosegue: «è che si entra più tardi di ruolo alle superiori: io sto ancora su sostegno, ma sono di ruolo e non mi caccia nessuno, poi al massimo farò il passaggio su altra classe di concorso». Iniziava a sibilare nelle mie orecchie una voce familiare che diceva “amico caro..”.
Il primo interlocutore continua: «ma con le medie lavori subito, se non le metti nemmeno significa che non ti interessa di lavorare».
«No guarda – provo a ribattere – il problema è un altro: non mi sento in grado di lavorare con i ragazzi delle medie: ho bisogno di altro, dico sul serio, farei solo danni alla secondaria di primo grado».
«Ma che danni e danni! Ma tu co le medie devi aprì il libro e dì “dai, ragazzi, aprite il libro a pagina 7 e leggiamo”, così devi fa!», come a voler sottintendere: “Li fai sta zitti un’ora, te passa la giornata e c’hai lo stipendio”. Se ne va voltandomi le spalle con aria di sufficienza perché “non ho famiglia” e dunque “non ho esigenza di lavorare”. 

Si potrebbe aprire un lunghissimo – e forse noiosissimo – dibattito sull’affermazione per cui se una persona non tiene famiglia, non abbia reale esigenza di lavorare, dunque non ha quella voglia di “sgomitare” che sarebbe il contemporaneo istinto di sopravvivenza proprio delle metropoli del XXI secolo. Se una persona convive, non ha impellenze per i figli: fa quel che vuole con serafica calma, aspettando il posto giusto e il cadavere del nemico sul letto del torrente. Evidentemente non è così, ma loro non sanno dei dottorati tentati in circa quattro anni, tutti respinti o con motivazioni futili, o per un punto in meno o perché “dia retta a me, non è il suo turno”, oppure “lei vuole creare dibattito nella società scientifica: aspetti di avere una quarantina d’anni per questo”. E varie altre porte in faccia di cui ancora ho il solco sulla fronte (sul naso no, data la dimensione).

Ma basta con le doglianze. Andiamo al punto vero. 

Lo strumento di trasmissione del sapere con cui il collega in materia scientifica, di ruolo presso un noto istituto comprensivo romano, imposta il lavoro, segue una teoria scientifica codificata dal già senatore Antonio Razzi: «fatt li cazz tuoi» (andando a chiudere il cerchio della frase che iniziava a ronzarmi in testa “amico caaaro…”). “Prendi il posto e fingiti morto” o – alla meglio – fai passare la giornata e tutto passa, alternativa statale a “prendi i soldi e scappa”: nessuno guarderà il tuo operato, nessuno ti giudicherà per quello, l’importante è che tu sia ineccepibile da un punto di vista formale. Mentre la conversazione volgeva al termine, il pensiero correva subito alle pagine di Fiori italiani e al suo incipit: «Che cos’è un’educazione?». 

«Alla fine si alzò tra l’uditorio un ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a  rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. “Noi siamo vasi di fiori”, disse. “Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”». [p. 47]

La mente corre ai professori che ha avuto S., protagonista del romanzo, nel corso del suo percorso, dalle elementari alle superiori, nonché al sistema scolastico dell’epoca fascista in generale, plasmato dal regime con dovizia di particolari ideologici ma che alla sostanza e alla “fioritura” non badava affatto.

«Per gli Agonali, che parevano allora aspetti concreti della vita come
gli Stivali, tutti gli alunni di una determinata città, in gara tra
loro, svolgevano per iscritto temi di interesse pubblico del tipo :
“L’Italia ha finalmente il suo Impero” (dove ci sarebbero da discutere
tre idee principali: “ha”, “finalmente” e “suo”) con la solita tecnica
di identificare le risposte alle domande in esse implicite: Chi ha
finalmente l’Impero? (L’Italia.) Che cos’ha finalmente l’Italia?
(L’Impero.) Di chi è ciò che l’Italia finalmente ha? (Suo.)» [p. 112-113]

«Si soffriva per la mancanza di idee e di convinzioni, non già per il tentativo di indottrinarci. I pochi che ci provavano facevano ridere, mentre la mancanza di idee non era ridicola, era tragica». [p. 137]

E se Meneghello si chiedeva [p. 67]: 

«Ci saranno pur stati maestri e genitori che avevano delle riserve [sul tipo di messaggi e contenuti veicolati dai libri di testo del regime fascista, ma dov’erano? Il bambino è padre dell’uomo: ma chi è il padre del bambino?».

Nel caso specifico del colloquio avvenuto, il padre del bambino non c’è: s’è acclimatato al “si fa così” e alla sopravvivenza del mondo spietato di questa contemporaneità. L’interesse non è il vivaio quanto piuttosto il mantenimento di un’unica pianta: la propria. La speranza risiederebbe nella fioritura del “bambino-padre-dell’uomo” sperando che incontri insegnanti disposti a mettergli un po’ d’acqua nel vaso di tanto in tanto. Perché non importa cosa si fa in classe, l’importante è stare – per loro -. Che si producano danni irreparabili al termine di quel percorso di studi, non è un problema che li riguardi, dopo una certa data. Sarà questione che si affronterà al liceo: “ma tanto io insegno alle medie”.
Lo spirito erinnico di Razzi continua a volteggiare.

Così, mi è tornata in mente una supplenza – breve, per fortuna – prima dell’incarico annuale che ho svolto un paio d’anni fa in una scuola bene del centro di Roma: vedevo il Tevere a un passo, di fronte a me grandi vie a due corsie portavano il flusso di automobili alla tangenziale o dentro l’intestino della città. Il mio io periferico era curioso di entrare in contatto con quel mondo, distante da Torre Maura poco più di una ventina di chilometri ma sideralmente lontano da svariati punti di vista. Entro in una classe e dico loro di togliere i telefoni e di poggiarli sulla cattedra, come faccio di solito. Lamenti, frasi sprezzanti dette sottovoce “ma io mica so se è legale, sta cosa, mo me nformo”, contrarietà plurime: «E ‘r suo ndo sta prof?!», chiede una ragazza vestita di rosa dalla testa  ai piedi. Mentre me lo chiede lo sfilo dalla tasca e lo rivolgo a “schermo in giù” sulla cattedra: tutti i dispositivi sono lì. Dopo quattro secondi netti i ragazzi cercano distrazioni: c’è chi inizia a contare le penne, chi smania sulla sedia, chi rivolge lo sguardo da una parte all’altra facendo impazzire le pupille, una ragazza in particolare inizia a disegnare su un foglio ma poi inizia a pigiarci sopra le dita. Mi avvicino: aveva disegnato lo schermo di uno smartphone con tanto di applicazioni. (*)

Il fiore va annaffiato, ma esistono i fiorai in grado di potare, anziché recidere?

(*) Non mi soffermo in giudizi o critica nei confronti del piano di digitalizzazione e “nuova didattica” (im)posto dal Governo dal momento che credo traspaia evidentemente come sia molto critico nei confronti di un provvedimento abominevole.