iPhone batte “Zio Ho”

Mercato batte ideologia. A cinquant’anni dalla riunificazione, il Vietnam si è progressivamente avvicinato al modello di sviluppo cinese, dunque accettando di buon grado il libero mercato, pur mantenendo la struttura di governo a partito unico.

«Viviamo alla giornata: abbiamo un certo numero fisso di ragazzi che frequenta la nostra scuola ma molti altri vanno e vengono». A parlare è il direttore del Sapa hope village (Il villaggio della speranza di Sapa), Phero Thuong. Nome complicato da pronunciare per un occidentale: è per questo che il maestro, direttore e proprietario del progetto si presenta come Peter (Pietro) perché da molto tempo ha abbracciato il cattolicesimo, traducendo così il suo nome vietnamita. 
Ogni volta che si entra nel territorio di una piccola comunità (sia essa rurale o cittadina) si viene accolti da una grande struttura posta come ideale porta d’ingresso che recita (in vietnamita e nel dialetto locale): «Avanziamo progredendo nell’inclusione di tutte le minoranze». Attorno alla città di Sapa (situata a quaranta chilometri dal confine cinese, parte del distretto di Lao Cai) quest’assunto non viene molto rispettato. Ragazze e ragazzi orfani delle minoranze Dzao e H’Mong sono totalmente esclusi dal sistema scolastico statale che, seppur capillare, non riesce ad assicurare loro la necessaria educazione. Esclusi due volte.
Peter si è prefissato un obiettivo titanico: contrastare la dispersione e l’abbandono scolastico degli orfani che popolano i villaggi intorno a Sapa. Lo spazio (di sua proprietà) potrebbe definirsi a metà tra un doposcuola e un laboratorio per i ragazzi più grandi (con posti letto al piano superiore per chi abita lontano, non può tornare a casa o non ce l’ha proprio) ed è sostenuta interamente dalla volontà, dalla forza d’animo e dai suoi finanziamenti. Pochi, per la verità. L’aula è unica, divisa a metà tra i ragazzi più piccoli (seduti su sedie malferme) e quelli più grandi (dediti ad altre attività). Di fronte a loro un grosso un braciere sempre acceso ha su una pentola piena d’acqua a riscaldare: il tè per gli ospiti, o per chi altro verrà, non si può rifiutare. Si entra calpestando la terra (pavimento assente) e gli spazi sono piuttosto angusti. Nel retro del locale, però, c’è un’area tutta nuova: lo spazio per i potenziali volontari. Al momento non ce ne sono: «gli unici che, di tanto in tanto, trascorrono una parte dell’estate con noi provengono da Malesia, Singapore o Filippine», afferma sconsolato Peter nel suo inglese-vietnamita.
Il progetto non ha collegamenti con associazioni od Ong internazionali e “il villaggio” rimane isolato.

Non è isolata, al contrario, la città di Sapa, situata a pochi chilometri dalla scuola-laboratorio di Peter: una delle più turistiche del nord del Vietnam. Piena di visitatori occidentali, meta di primo approdo per coloro che vogliono esplorare i sentieri delle montagne lì attorno, rappresenta il crogiolo delle contraddizioni del paese: stride l’insieme caotico di bandiere rosse con la stella gialla (alternate a quelle del partito) di fianco a locali sfavillanti, ristoranti stracolmi di cibo occidentale e trappole per turisti. Le imponenti strutture governative e del Partito comunista si ergono tronfie di fronte alla sfrontatezza dei marchi del capitalismo che avanzano col placet del politburo. Così come ad Hanoi, anche a Sapa (e nella maggior parte delle città del paese), le bandiere sono affisse ad ogni lampione di ciascuna strada, ogni giorno dell’anno.
 
Da tempo il Vietnam sta abbracciando il modello cinese: la Cina non è solo un punto di riferimento politico ma anche di organizzazione sociale. Il marxismo-leninismo vietnamita significa semplicemente “democrazia a partito unico”. Dunque: forte controllo statale e pianificazione economica ma anche libero mercato e libero accesso ad internet. Allo stesso modo i pagamenti possono essere effettuati elettronicamente con QrCode (o con carte Visa) anche nei mercati più lontani dalle città. La moneta locale soffre la svalutazione e il cambio Euro/Dong (1 euro vale circa 29.000 Dong) assomiglia alle immagini del Marco durante la Repubblica di Weimar sui libri di scuola. A Sapa estrema ricchezza ed estrema povertà si incontrano prendendo un taxi oppure girando per le strade in cui donne e bambini di varie etnie ballano per pochi Dong mentre vengono filmate da avidi turisti (che poi posteranno quei video su TikTok generando, sicuramente, il triplo del profitto). 
 
Allo stesso modo ad Ho Chi Minh City, già Saigon, ex fortezza statunitense del sud, la musica non cambia. Anzi, peggiora. Grattacieli, vetrine di Dior, Tiffany, H&M, fast food, gioiellerie costosissime e negozi d’alta moda abbracciano le grandi arterie che portano al centro della città, nella fu zona vecchia, ora una delle più ricche del sud. Gli statunitensi hanno perso la guerra cinquantanni fa e tutto il paese è in festa: la riunificazione è motivo di unione patriottica della nazione riconciliata da chi aveva messo i vietnamiti l’uno contro l’altro (prima la Francia, poi gli Usa) ma è anche l’occasione per guardare ancora più criticamente il doppio volto del sistema che regge il Vietnam. 
 Il mercato ha battuto ogni ideologia. Gli iPhone hanno sostituito il motto della rivoluzione che recitava: «mangia la metà, lavora il doppio per raggiungere gli obiettivi dello zio Ho». TikTok, Instagram e mille altre piattaforme hanno mutato alla radice la consapevolezza della nazione. Le immagini di Ho Chi Minh sono, ormai, sovrastate dai centri commerciali in stile occidentale.

Pubblicato su L’Eco di Bergamo del 16 giugno 2025 

Qualche foto [storta] in bianco e nero del Vietnam

La produzione Fotostorte si è recata in Vietnam in viaggio di nozze. Ma non c’è viaggio senza le foto rigorosamente storte, nomen omen, sfocate e tendenzialmente bruttine. Stavolta, però, la produzione ha voluto fare le cose in grande e, addirittura, si è portata con sé una macchina fotografica a pellicola e dei rullini addirittura in bianco e nero. 

In perfetto stile fotostorte: è tutto a fuoco, tranne Maria

Prima del Vietnam

Il commercio equo alla prova dei dazi

Foto di Luba Glazunova su Unsplash

Alessandro Franceschini, presidente Altromercato, è ottimista: «Di fronte all’estrema imprevedibilità del mercato internazionale, rispondiamo con la forte credibilità di una relazione fondata non sulla speculazione ma sulla fiducia».
Caffè, cioccolata e zucchero: la politica economica di Donald Trump potrebbe avere ripercussioni anche sulla filiera del commercio equo-solidale. Altromercato, la principale realtà in Italia, è presente sul territorio bergamasco con sei punti vendita di due cooperative: Amandla gestisce botteghe a Bergamo, Calusco, Gazzaniga e Seriate, Nuova solidarietà a Casazza e Clusone. All’elenco aggiungiamo anche la realtà di Nembro (Gherim) che, pur non essendo direttamente partner, rappresenta una peculiarità.
«La questione dazi è complessa e si inserisce in un quadro internazionale in cui ci mancava solo la guerra commerciale tra Usa e resto del mondo», a parlare è Alessandro Franceschini, presidente nazionale di Altromercato, raggiunto da L’Eco di Bergamo. Ma il protezionismo di Trump «non ha ancora effetti sui paesi che esportano beni legati alla filiera del commercio equo: ce ne saranno per le importazioni da parte degli Usa (ma sappiamo che non sono molto equo-solidali)». 
Non solo dazi
Il punto è che la dialettica muscolare tra grandi potenze va ad inserirsi in una cornice di crescente difficoltà di base: il cambiamento climatico interpreta un ruolo da protagonista nella crisi già esistente. «Venivamo tacciati di essere delle Cassandre catastrofiste», dichiara Franceschini ma ora «si nota perfettamente» quanto i paesi del cosiddetto terzo mondo «siano esposti al cambiamento climatico, sebbene siano proprio quelli che meno abbiano contribuito ad alimentarlo». È quello che si sta verificando, ad esempio, riguardo il caffè in Nicaragua: le coltivazioni si stanno spostando sempre più in altura a causa dell’inaridimento delle piante e degli infestanti. «Abbiamo sostenuto l’iniziativa di alcuni produttori nicaraguensi con un progetto denominato Eroi del clima (fondazione Altromercato) per fornire loro degli strumenti al fine di fronteggiare l’inedita circostanza». Spostandoci di continente, troviamo l’analoga situazione del Vietnam: colpito dai dazi (46%), ha già ridotto la produzione (dunque l’esportazione) dei chicchi di robusta a causa del cambiamento climatico. Ma Franceschini è ottimista per quel che riguarda la filiera etica. Certo: «il grosso del fatturato di Altromercato proviene da cacao e caffè [compreso lo zucchero di canna] ma, nonostante le speculazioni delle borse, abbiamo mantenuto dei prezzi giusti». Come? Non abbassando i prezzi al produttore. «Di fronte all’estrema imprevedibilità del mercato internazionale, rispondiamo con la forte credibilità di una relazione fondata non sulla speculazione ma sulla fiducia», sostiene Franceschini, che afferma: «sebbene legati a fattori di borsa, paghiamo di più e stabilmente i produttori» perché «nella loro percezione ciò che conta è la continuità della relazione».
E l’Italia?
Il nostro paese non si classifica mai ai primi posti per il livello di retribuzione dei lavoratori, eppure secondo Franceschini molti consumatori hanno deciso di cercare alternative sociali ed etiche in sostituzione alla grande distribuzione (Gdo). «La nostra identità è legata alle botteghe ma, ormai, il loro fatturato rappresenta il solo 20% di Altromercato: essere presenti da un trentennio nella Gdo fa sì che il marchio cresca. Tanto più è forte il brand, tanto più la gente si rivolge alle botteghe».
A Nembro il bar equo-solidale
Non direttamente affiliata ad Altromercato, Gherim a Nembro gestisce in concessione lo spazio del bar, che comprende anche l’Auditorium Modernissimo, in Piazza Libertà. Secondo la responsabile Francesca Signori: «sebbene il prezzo sia lievitato globalmente, il caffè del commercio equo (che utilizziamo per il bar) ha mantenuto i costi di cessione e vendita». «C’è anche da dire – prosegue – che al momento viviamo una fase di crescita grazie alle iniziative che abbiamo messo in atto: c’è tanta partecipazione attorno a Gherim». Non un semplice bar ma punto di ritrovo. Il 31 dicembre [2025] scadrà la convenzione col comune per la gestione dei locali e Nembro potrebbe non vivere più quello spazio. Condizionale d’obbligo. 
 
Articolo pubblicato su L’Eco di Bergamo il 19.5.2025

Tre cose strane del Vietnam

Dopo la serie “Cose strane della Bolivia“, direi che un post analogo per il Vietnam sia più che doveroso. 

#1 – Le docce

Vi ricordate le docce boliviane, quelle con i fili elettrici attaccati al soffione? Qui si sono organizzati diversamente. Il rubinetto del lavandino prevede un attacco per il tubo della doccia, così ci si può tranquillamente lavare azionando l’acqua dalle manopole del lavandino. Solo dopo aver visto questa insolita collocazione della doccia abbiamo capito il senso dell’avviso posto nel bagno della stanza di un hotel di Hanoi in cui abbiamo trascorso la prima notte: “Per favore, non utilizzate la doccia al di fuori degli spazi”. Ammetto che la richiesta ci aveva lasciati perplessi: aver trascorso dei giorni lontani da posti frequentati da occidentali ci ha fatto facilmente capire il tutto. 

#2 – Il bagno

Rimaniamo sempre in ambito “sanitari” per parlare di come il lavandino non preveda uno scarico dedicato: l’acqua del lavandino finisce direttamente sulle mattonelle del bagno per poi defluire in uno scarico solitamente posto in uno degli angoli dello spazio. Come si può facilmente intuire: il bagno si riempie d’acqua con estrema facilità. 

Al di sotto del lavabo non c’era alcun tipo di scarico e l’acqua finiva letteralmente sui piedi

#3 – Bacarozzi (fritti)

Nell’homestay di Mu Can Chai, in cui abbiamo cenato e trascorso la quarta notte, per farci sentire molto accolti e farci provare delle cose buonissime da mangiare, ci hanno portato un piattino di scarafaggi fritti. Probabilmente la famiglia si sarà arrabbiata moltissimo: non abbiamo avuto coraggio di mangiarli e li abbiamo lasciati lì sul piatto dove li avevano posti. Quando ero bambino e chiedevo a mia madre cosa si mangiasse per cena, la sua risposta giocosa era quasi sempre: “Mah, non so: ti vanno bene dei vermetti fritti?”. In Vietnam ci sono andato vicino: letteralmente!

P.s. ciao mamma, no: non li ho mangiati ❤️

Le insegne luminose attirano gli allocchi


Fame e sonno

Il volo della Thai Airlines è durato 12 ore, al termine delle quali, come nel caso di ogni viaggio così lungo, si ha la sensazione di aver scalato una montagna nonostante si sia rimasti immobili (o poco più) per svariato tempo. Dalla partenza fino alle prime ore dell’alba (ora italiana, circa 22:00) la previdente compagnia thailandese ci ha fornito ben due pasti: il primo avrebbe dovuto rappresentare la cena, il secondo, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere una sorta di colazione ma teoria e pratica non coincidono spesso. Anche l’altro volo Thai per Hanoi avrebbe previsto una colazione (9 di mattina): cous cous con lenticchie e, per fortuna, della frutta. Usciti dall’aeroporto, un muro d’umidità e di caldo ci ha assalito e ci ha subito fatto capire che aria avrebbe tirato in Vietnam. La grande strada che porta alla città di Hanoi pullula di motorini che portano qualsiasi cosa. Anche persone, accidentalmente, ma soprattutto merci. Mancano due giorni alla parata del 30 aprile, giorno della riunificazione e della liberazione di Saigon da parte delle truppe nordvietnamite: i cartelloni propagandistici sono ovunque, così come dappertutto sono le immagini di Ho Chi Minh posto di fianco ad una colomba bianca, simbolo di pace, quella riconquistata dopo la cacciata degli statunitensi dal paese. 

Mai Chau

Il villaggio di Mai Chau si sveglia alle 5:30 circa. Case aperte al piano terra come la grande maggioranza delle abitazioni vietnamite: dalle grandi televisioni poste al centro degli spazi aperti nelle case si diffonde ad altissimo volume la musica della parata militare e il discorso del Presidente vietnamita: tutti sono intenti a guardare la parata: si formano capannelli di fronte ai grandi schermi delle case per poter meglio vedere la dimostrazione del governo. È il cinquantesimo della riunificazione del paese, da quando le truppe nordvietnamite hanno liberato Saigon (ora Ho Chi Minh City), da quando gli Stati Uniti sono stati cacciati dal paese. Gli occidentali fanno ancora fatica a comprendere la portata di questo evento: sulla guida della LonelyPlanet viene usata con grande serenità questa descrizione per illustrare, pur brevemente, l’avvicendarsi del colonialismo e dell’imperialismo in Vietnam: «Saigon divenne capitale della Cocincina (sotto la presenza francese): nel ’54 dopo la partenza dei francesi, la città divenne capitale della Reubblica del Vietnam. Quando cadde in mano alle forze nordvietnamite nel 1975 venne ribattezzata Ho Chi Minh City». Nessun accenno alla strage statunitense, “partenza” per indicare la fine della colonizzazione francese, “occupazione” per indicare l’entrata delle truppe nordvietnamite in città. Non fa una piega.

Ma siamo a Mai Chau e qui è festa, così come nei villaggi limitrofi, in ogni città, in ogni agglomerato di case (sia esso urbano o rurale). L’auista e l’interprete (necessario perché il vietnamita è totalmente incomprensibile all’orechio occidentale) mi invitano a sedere al tavolo con loro mentre sui loro smartphone scorrono le immagini della diretta del tg nazionale che manda in onda la parata. 

Ogni portone, ogni negozio, ogni motorino e automobile ha con sé la bandiera rossa con la stella gialla al centro. Ed è così 365 giorni all’anno, non solo in questi giorni di festa. Da tempo il Vietnam sta abbracciando il modello cinese: la Cina non è per loro solo un punto di riferimento politico ma anche di organizzazione sociale. Il marxismo-leninismo vietnamita significa semplicemente “democrazia a partito unico”, dunque: forte controllo statale, pianificazione economica ma anche libero mercato, libero accesso ad internet e a Google, pagamenti elettronici con QrCode (o con carte Visa) anche nei mercati più lontani dalle città e via dicendo. La moneta locale è fortemente svalutata: il cambio Euro/Dong (1 euro vale 29.000 Dong circa) assomiglia alle immagini della svalutazione del Marco durante la Repubblica di Weimar. È quel che si direbbe “democratura”, il Vietnam: quella torsione, di definizione tutta occidentale, che prevederebbe il mantenimento delle istituzioni proprie della democrazia liberale con un potere governativo molto forte e totalmente decisionista. L’opposizione, in certi casi, è più d’intralcio che positivamente dialettica, si direbbe. Qui, semplicemente, non esiste.

Sa Pa 

Nella città più turistica del nord del paese le contraddizioni si manifestano tutte insieme. Stride fortissimamente l’insieme caotico di bandiere rosse con la stella gialla (alternate a quelle del partito) con locali sfavillanti, pieni di lucine («le insegne luminose attirano gli allocchi», avrebbe urlato qualcuno sotto una drum machine e una chitarra acidamente distorta), ristoranti stracolmi di cibo occidentale e trappole per turisti. Estrema ricchezza ed estrema povertà si incontrano prendendo un taxi oppure girando per le strade in cui donne e bambini di varie etnie del nord vietnamita ballano per pochi Dong mentre vengono filmate da avidi turisti (che poi posteranno quei video su TikTok generando, sicuramente, il triplo del profitto).

Ci sono anche hotel e locali per soli vietnamiti i quali tentano di resistere stoicamente all’invasione occidentale e del turismo di massa proveniente da paesi limitrofi (Cina, Sud Corea, India, Malesia e Singapore su tutti) ma tutto si tiene in piedi su un obiettivo comune: soldi. Sa Pa assomiglia a una di quelle città italiane di località termali: Salsomaggiore, Chianciano o Montecatini, ma senza la crisi che attanaglia le strutture del fu turismo anni ’80. Il partito è presente in ogni slogan propagandistico affisso nelle strade, in ogni bandiera posta in ciascuna via ma il profitto è l’unico orizzonte di Sa Pa, quasi fosse un porto franco. Puoi pagare anche in dollari o in euro. I locali non fanno storie: il cambio è comunque a loro favore. 

Sa Pa Hope

Basta fare pochi chilometri e allontanarsi dalle enormi strutture alberghiere, dai locali per massaggi stracolmi di asiatici ed europei, dalle lucine abbaglianti del più sfrenato consumismo per andare a toccare con mano l’esclusione sociale generata dalla sfrenata e sfrontata identità di Sa Pa. I villaggi attorno alla città (ad esempio Ta Phin) vivono di agricoltura e sono popolati da un crogiolo di etnie. Ogni volta che si entra in una piccola comunità (sia essa rurale o cittadina) si viene accolti da una grande struttura posta come ideale porta d’ingresso che recita (in vietnamita e in dialetto della comunità locale): «Avanziamo progredendo nell’inclusione di tutte le minoranze». Attorno a Sa Pa quest’assunto non viene molto rispettato. Ragazze e ragazzi orfani delle minoranze Dzao e H’Mong sono totalmente esclusi dal sistema scolastico statale che, seppur capillare, non riesce ad assicurare loro la presenza educativa. Esclusi due volte. «Viviamo alla giornata: abbiamo un certo numero fisso di ragazzi che frequenta la nostra scuola ma molti altri vanno e vengono», a parlare è Phero Thuong ma a noi si è presentato come Peter, Pietro, perché ha abbracciato da molto tempo la religione cattolica e traduce così il suo nome vietnamita. Il posto, che ha chiamato Sa Pa hope village, è suo e i ragazzi sono divisi in tre livelli a seconda dell’età: «con i ragazzi del terzo livello strutturiamo un progetto scuola professionale, così da poter fare in modo di trovare un impiego nella ristorazione o nei campi». Solo che l’intenzione di Peter si è dovuta scontrare, negli anni, con i costi degli alloggi della città: «per molto tempo abbiamo avuto una struttura al secondo e terzo piano: al secondo facevamo scuola, al terzo i ragazzi dormivano». I più grandi, quelli del terzo livello, potevano essere impiegati nella caffetteria al piano terra del palazzo: «i costi, però, erano troppo elevati e adesso questo è il nostro posto». Il punto è che il progetto di Peter vive dei soli soldi di Peter e di donazioni locali: non ha collegamenti internazionali, non ha contatti con altre associazioni od Ong. «Gli unici volontari che, di tanto in tanto, trascorrono una parte dell’estate con noi provengono da Malesia, Singapore o Filippine», dice un po’ sconsolato Peter nel suo inglese molto personale.

«Sarebbe bello che qualcuno insegnasse l’inglese ai ragazzi stando insieme a noi», dice Peter mentre ce ne andiamo. I suoi sforzi sono stati (e sono tuttora) immensi ma c’è bisogno di molto ancora. 

Saigon

Umidità. Caldo asfissiante all’esterno e aria condizionata a temperature polari all’interno dei posti al chiuso. Grattacieli, vetrine di Dior, Tiffany, H&M, fast food americani (Burger King, Popeye), gioiellerie costosissime e negozi d’alta moda abbracciano le grandi arterie che portano al centro della città, nella fu zona vecchia, ora una delle più ricche del sud del Vietnam. Arterie stradali ai cui lampioni sono apposti stendardi del partito comunista e bandiere nazionali. Se a Sa Pa il luccichio dei locali era stridente, a Saigon la situazione è ancora più grottesca. Grandi catene dell’occidente capitalista, centri commerciali a sei piani e negozi di lusso si trovano a proprio agio su quella che doveva essere la più bella promenade della città colonizzata dai francesi, avvolta, come tutte le strade (grandi o piccole che siano), dalle bandiere rosse con la stella gialla o con la falce e il martello. Gli americani hanno perso sul campo la guerra proprio 50 anni fa: il paese in questi giorni è in festa da nord a sud. La riunificazione è motivo di unione patriottica della nazione riconciliata da chi aveva messo i vietnamiti l’uno contro l’altro (prima i francesi, poi gli statunitensi) ma è anche l’occasione per guardare ancora più criticamente il doppio volto di questo sistema a partito unico che ostinatamente rievoca il proprio passato glorificandolo (le immagini di Ho Chi Minh sono ovunque, così come due giorni dopo la liberazione di Saigon) ma che ha accettato il libero mercato con una serenità che apre ancor di più crepe e contraddizioni agli occhi occidentali. Starbucks sulla via Le Than Thon ha quattro vetrine, così come ce le ha una banca cinese che propone un tasso vantaggioso per chi depositerà i propri risparmi e deciderà di ottenere una carta Visa per i pagamenti. Gli americani saranno anche stati sconfitti militarmente sul campo ma il mercato ha battuto l’ideologia; gli iPhone hanno sostituito il motto della rivoluzione «mangia la metà, lavora il doppio per raggiungere gli obiettivi dello zio Ho»; TikTok, Instagram e mille altre piattaforme hanno mutato alla radice la consapevolezza della nazione riunificata e riappacificatasi dopo l’ondata di odio statunitense che ha posto le basi per la divisione al diciassettesimo parallelo. Risuona nella testa “Il mio nemico” di Daniele Silvestri che, sulla base di “Alturas” degli Inti-Illimani, aveva inventato un ritornello che fa comprendere bene la situazione che stiamo vivendo in questi giorni e dannatamente attuale (internazionalmente parlando): «il mio nemico non ha divisa / ama le armi ma non le usa / nella fondina tiene le carte Visa / e quando uccide non chiede scusa […] Il potere non lo logora». L’Italia è andata nella direzione del nemico della canzone, Silvestri è stato (purtroppo) presto dimenticato dalla gran parte degli italiani e i proiettili del grande capitale sono ancora tutti in canna.

E sembra non esaurire mai le sue cartucce. Il potere non lo logora.

Ho Chi Minh city/Saigon, 7.05.2025

(Altre foto saranno caricate nei prossimi giorni, al nostro ritorno, così come altri post – meno polpettoni – saranno pubblicati più avanti).

La “guerretta” del Vietnam

Dice: «È che stanno n po’ a sgravà sti coreani»

Dico: «Tipo?»
Dice: «È che stanno a fa sti test nucleari, sti missili»
Dico: «Eh ma l’hanno fatti pure i francesi, pe’ na vita, i test nucleari
sull’atolli della Polinesia, pe’ nun parlà dell’americani che buttano
bombe in ogni dove»
Dice: «Eh ma questo è no stato piccolo, so du persone, se po’ sempre annà là e spianalli» (concetto già espresso qui)
Dico: «Sì e chi ce vanno l’americani?»
Dice: «Eh, proprio loro, ce metterebbero du minuti: so quattro gatti, i coreani»
Dico: «Peccato che l’americani hanno già perso na guerra contro i coreani del nord. Così, tanto pe’ dì»
Dice: «Ma che stai a dì?!»
Dico: «Ao, la guerra de Corea»
Dice: «Ma quando c’è stata?»
Dico: «1950-53, ao, daje, l’hai studiata storia»
Dice: «Non me ricordo assolutamente de sta guerra, ma sei sicuro?»
Dico: «Caspita, ma che scherzi? Le due Coree so divise al 53esimo
parallelo da quando se so pijati a schioppettate, tutt’ora ce stanno
basi americane. ‘A Nord Corea è, e questo n’è che poi dì de no, n paese
completamente accerchiato»
Dice: «Ma ce sarà pure stata sta guera, ma sarà stata na guerretta, una che l’americani hanno voluto perde»
Dico: «Na guerretta? Ma che stai fori?»
Dice: «Ao si l’americani nu l’hanno voluta vince, è na guerretta. È così»
Dico: «E quindi pure r Vietnam, pe’ forza de cose…»
Dice: «…Na guerretta»
Dico: «Ma sei serio o me stai a cojonà?»
Dice: «Ao ma ragiona, cazzo: immagina che io so l’America, te nvado a te che sei no sputo de stato, quanto me ce vole a ammazzatte?»
Dico: «Ma proprio perché te sei l’America e io no sputo de stato e t’ho
pure cacciato a caRci n bocca è na cosa stratosferica, non po’ esse na guerretta»
Dice: «Sentime n’attimo: l’americani ce l’hanno l’atomica? Sì. Se non
l’hanno usata n Vietnam o n Corea, come dici che ce sia stata na guera,
allora significa che l’hanno voluta perde»
Dico: «Ma che c-a-z-z-o dici?! Quindi dopo che hanno perso mijardi de persone, l’americani, se ne so andati così, pe’ sport?!»
Dice: «Ma avranno detto vabbè, ma che ce frega, tornamo ndietro»
Dico: «Te giuro me stai a lascià senza parole»
Saigon – Gli americani scappano dalla ‘guerretta’ del Vietnam