Il dramma senza fine del Sudan

Lo smembramento del Sudan avviene nell’indifferenza internazionale: venticinque milioni di persone a rischio di morte per fame.

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Le Nazioni Unite hanno definito la guerra civile in Sudan «la più grave crisi umanitaria del mondo». «Ci sono almeno dodici milioni di persone che hanno lasciato le loro case, di cui due milioni sono emigrati dal paese, il resto rappresenta la gran massa di sfollati interni», a parlare è padre Diego Dalle Carbonare, superiore provinciale dei Comboniani in Sudan. Lo abbiamo intervistato mentre si trova a Port-Sudan, città strategica per il paese, ora ancor più importante data la presa di El-Fasher (capoluogo del Darfur del nord) da parte del gruppo militare “Forze di supporto rapido” (Fsr).

«Venticinque milioni di persone sono a rischio fame di cui cinque in una situazione di rischio acuto di carestia e sette di bambini che non hanno accesso all’istruzione. Il mondo in questi anni si è rivolto all’Ucraina e alla Palestina ma qui si sta consumando una crisi enorme», dichiara il missionario comboniano. Certo è che se si guardano solo i numeri dei caduti in battaglia, c’è il rischio di non comprendere la portata di due anni di conflitto in un paese atomizzato e in preda a scontri tra bande armate: «i morti diretti a causa delle pallottole – per intenderci – sono stimati attorno a duecentomila» ma non si contano tra questi: «i civili che non hanno accesso alle medicine, al cibo e all’acqua».

Cosa sta succedendo in Sudan?

Da due anni [2023] in Sudan vi è una guerra civile scoppiata a seguito di una lotta per il potere tra l’esercito regolare e le Fsr. Ma come ogni crisi che porta ad un conflitto armato, le cause della guerra vengono da lontano. Nel 2019 l’allora presidente Omar al-Bashir (in carica dal 1989) viene destituito da un colpo di stato militare. La mediazione a cui si giunge è quella di una giunta mista politico-militare di transizione verso un nuovo assetto democratico. Nel 2021 un nuovo colpo di stato stravolge di nuovo la storia. A condurre l’operazione furono due generali: Abdel Fattah al-Burhan (generale, capo delle forze armate regolari) e Mohamed Hamdan Dagalo”Hemdeti”(vice di al-Burhan ma anche capo delle Fsr). Tra i due sorgono dapprima dissapori e successivamente scontri accesi sulla direzione che il paese avrebbe dovuto intraprendere: al-Burhan diventa presidente de facto imponendo un regime durissimo considerato dittatoriale da molte organizzazioni internazionali come Humans rights watch. Dal 2023 la situazione è precipitata ed è stata guerra tra le parti in lotta.

Una situazione complessa

Ma si tratta di un conflitto scaturito da astio, poi degenerato in odio, tra due generali. La realtà dei fatti è che il Sudan si sta atomizzando sempre di più: «da una parte vi sono le Fsr, mercenari al soldo degli Emirati Arabi Uniti; dall’altra l’esercito di un regime dittatoriale il cui periodo di governo è stato caratterizzato dall’imposizione della legge islamica», ha dichiarato il missionario comboniano. Il coinvolgimento emiratino parrebbe essere presente da tempo nella regione: d’altra parte il Sudan è uno di quei posti ricchi di preziosi nel sottosuolo. A marzo di quest’anno il governo di Khartoum aveva intentato una causa contro gli Emirati davanti alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di aver sostenuto le Fsr. Da Abu Dhabi avevano negato tutto ma il rapporto è definito da più attori istituzionali come «alleanza strutturata». A tal riguardo va precisato anche come non sia «una guerra combattuta con vecchi kalashnikov riciclati», come ha tenuto a precisare Dalle Carbonare, ma «con droni e armi sofisticate di produzione occidentale».

La comunità internazionale tace

I paragoni con altre realtà statali del continente potrebbero non essere calzanti tuttavia parrebbe essere di fronte ad uno scenario di smembramento simile a quanto è avvenuto (e sta ancora verificandosi) in Libia. Se in un primo momento di quest’anno le forze armate del governo di Khartoum sembravano essere in grado di contenere (e in alcuni casi sconfiggere) le Fsr, con la presa di El-Fasher si è verificato un nuovo stravolgimento.

Che sia il diritto internazionale a prevalere e che si possano aprire corridoi umanitari è quel che si augura Dalle Carbonare ma sul ruolo della comunità internazionale è scettico: «sarà un percorso lungo perché, a parte un tentativo di mediazione nel 2023, non ce ne sono stati altri»; da un lato Donald Trump parrebbe aver posato sguardo ed intenzioni belliciste altrove, dall’altro l’UE «si muove con estrema lentezza». E in Sudan si continua a morire.

Né scià, né ayatollah: il futuro dell’Iran sarà democratico

«Non abbiamo bisogno di un ritorno al passato: non ci interessa la monarchia. Vogliamo un Iran democratico, libero e laico», a parlare è il dottor Khosro Nikzat, cardiochirurgo presso l’Ospedale di Cuneo. Presidente dell’Associazione dei dottori e farmacisti iraniani in Italia, Nikzat è scappato dall’Iran quando l’ayatollah Khomeini riuscì a prendere il potere a seguito della rivoluzione che fece cadere lo scià Mohammad Reza Palavi.

Senza lieto fine

Quella dell’Iran è una storia che in pochi ricordano: gli avvenimenti dell’ultimo ventennio tendono a sovrastare quanto vissuto dal paese nel recente passato. Nel 1979 la società iraniana stava attraversando un periodo di forte fermento culturale, politico e sociale. La popolazione non supportava più il potere di Reza Palavi, dunque della monarchia: voleva un cambio radicale dell’assetto statale. Si era messa in moto una nazione intera: dalle associazioni politiche liberali a quelle comuniste e socialiste, dai laici ai sostenitori di Khomeini. Subito dopo la caduta dello Scià, tuttavia, la parte religiosa oltranzista ha prevalso sulle altre e lo stato diventò sì una repubblica ma confessionale: la Repubblica islamica dell’Iran. Spesso, osservando i processi rivoluzionari nella storia, sfugge la molteplicità di attori che sono parte di un movimento per un medesimo obiettivo, pur con fini diversi. «Sono arrivato in Italia nel 1979, sei mesi dopo la cacciata del potere monarchico: da quel momento non ho più fatto ritorno nel mio paese d’origine», Nikzat voleva studiare medicina in Italia «con la speranza di tornare».
Ma questo suo desiderio non si è mai avverato.

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«Quando ho intuito cosa stava accadendo – prosegue Nikzat – ho capito che non sarebbe stato più possibile tornare in Iran: mi sono dichiarato ufficialmente contro il regime degli ayatollah, dunque mi è stato impossibile tornare in Iran». Tornare avrebbe significato esporsi a pericoli enormi: l’opposizione non era accettata da Khomeini, né ora da Khamenei, tanto meno sono tollerate manifestazioni di dissenso.

La Resistenza (in esilio) si organizza

La diaspora iraniana ha fatto sì che venissero a crearsi dei focolai di resistenza alla Repubblica islamica. L’esperienza più longeva, al momento più consistente nonché riconosciuta da molti paesi a livello internazionale, è il Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri) di cui l’organizzazione dei Mojahedin del popolo è tra i maggiori esponenti, l’attuale presidentessa è Maryam Rajavi, moglie dello storico leader Massoud Rajavi scomparso nel 2003. «Il 52% degli organismi direttivi del Cnri – spiega Nikzat – è composto da donne», tra cui figura anche Zolal Habibi che nel 1988, a seguito dell’uccisione del padre da parte del regime, inizia ad intraprendere la lunga marcia che l’ha successivamente condotta all’attuale impegno politico. Nata negli Usa, è componente della resistenza dall’88: un passato in Italia e ora è di base a Parigi.

«La resistenza iraniana – prosegue il dottore – si divide in tre tronconi: la prima, diplomatico-politica, ha sede a Parigi; la seconda è in Albania, nel campo-città Ahsraf 3, a 30km da Tirana, in cui vivono i membri della resistenza; la terza è in Iran ed è formata dalla rete delle Unità di rivolta che organizzano proteste e azioni di sensibilizzazione nel paese». Parte della resistenza, o meglio, simpatizzante del Cnri e di Rajavi, è anche l’associazione dei Giovani iraniani la cui portavoce è Azar Karimi. Romana, classe ‘86, figlia di esuli che hanno vissuto le proteste contro Reza Palavi, non ha mai visto l’Iran ma si riconosce «nel programma di transizione» della resistenza proposto da Rajavi.

«Il popolo iraniano sa da sé come rovesciare questo regime», sostiene fiduciosa Karimi, «anche grazie alle azioni che i nuclei di resistenza» conducono dentro e fuori l’Iran.

Certo è che se l’opposizione dovesse riuscire ad andare ora al potere, la situazione non sarebbe facile da affrontare: la guerra con Israele è ancora alle porte e la tregua – pur siglata – ha l’aria di durare ben poco. Ma su questo Nikzat non nutre particolari dubbi: «la guerra finirebbe dal momento che riconosceremmo entrambi gli stati come indipendenti: quello di stato di Israele e quello di Palestina», «il regime» avrebbe continuato «a cavalcare il conflitto tra le parti» per sperare di espandere la propria area d’influenza in Medio Oriente.

Verso la democrazia

«Nella difficile situazione in cui versa l’Iran – sostengono sia Karimi che Nikzat – sebbene il passato possa presentarsi come ‘nuovo’, l’alternativa non è il ritorno alla monarchia ma sarà la repubblica democratica». In cosa consiste, allora, la transizione proposta da Mariam Rajavi? Transizione democratica e instaurazione di una repubblica laica, separazione tra religione e stato, abbandono del programma nucleare, pari diritti di genere, disconoscimento della sharia e sospensione della pena di morte.

Articolo pubblicato su L’Eco di Bergamo il 3 agosto 2025

iPhone batte “Zio Ho”

Mercato batte ideologia. A cinquant’anni dalla riunificazione, il Vietnam si è progressivamente avvicinato al modello di sviluppo cinese, dunque accettando di buon grado il libero mercato, pur mantenendo la struttura di governo a partito unico.

«Viviamo alla giornata: abbiamo un certo numero fisso di ragazzi che frequenta la nostra scuola ma molti altri vanno e vengono». A parlare è il direttore del Sapa hope village (Il villaggio della speranza di Sapa), Phero Thuong. Nome complicato da pronunciare per un occidentale: è per questo che il maestro, direttore e proprietario del progetto si presenta come Peter (Pietro) perché da molto tempo ha abbracciato il cattolicesimo, traducendo così il suo nome vietnamita. 
Ogni volta che si entra nel territorio di una piccola comunità (sia essa rurale o cittadina) si viene accolti da una grande struttura posta come ideale porta d’ingresso che recita (in vietnamita e nel dialetto locale): «Avanziamo progredendo nell’inclusione di tutte le minoranze». Attorno alla città di Sapa (situata a quaranta chilometri dal confine cinese, parte del distretto di Lao Cai) quest’assunto non viene molto rispettato. Ragazze e ragazzi orfani delle minoranze Dzao e H’Mong sono totalmente esclusi dal sistema scolastico statale che, seppur capillare, non riesce ad assicurare loro la necessaria educazione. Esclusi due volte.
Peter si è prefissato un obiettivo titanico: contrastare la dispersione e l’abbandono scolastico degli orfani che popolano i villaggi intorno a Sapa. Lo spazio (di sua proprietà) potrebbe definirsi a metà tra un doposcuola e un laboratorio per i ragazzi più grandi (con posti letto al piano superiore per chi abita lontano, non può tornare a casa o non ce l’ha proprio) ed è sostenuta interamente dalla volontà, dalla forza d’animo e dai suoi finanziamenti. Pochi, per la verità. L’aula è unica, divisa a metà tra i ragazzi più piccoli (seduti su sedie malferme) e quelli più grandi (dediti ad altre attività). Di fronte a loro un grosso un braciere sempre acceso ha su una pentola piena d’acqua a riscaldare: il tè per gli ospiti, o per chi altro verrà, non si può rifiutare. Si entra calpestando la terra (pavimento assente) e gli spazi sono piuttosto angusti. Nel retro del locale, però, c’è un’area tutta nuova: lo spazio per i potenziali volontari. Al momento non ce ne sono: «gli unici che, di tanto in tanto, trascorrono una parte dell’estate con noi provengono da Malesia, Singapore o Filippine», afferma sconsolato Peter nel suo inglese-vietnamita.
Il progetto non ha collegamenti con associazioni od Ong internazionali e “il villaggio” rimane isolato.

Non è isolata, al contrario, la città di Sapa, situata a pochi chilometri dalla scuola-laboratorio di Peter: una delle più turistiche del nord del Vietnam. Piena di visitatori occidentali, meta di primo approdo per coloro che vogliono esplorare i sentieri delle montagne lì attorno, rappresenta il crogiolo delle contraddizioni del paese: stride l’insieme caotico di bandiere rosse con la stella gialla (alternate a quelle del partito) di fianco a locali sfavillanti, ristoranti stracolmi di cibo occidentale e trappole per turisti. Le imponenti strutture governative e del Partito comunista si ergono tronfie di fronte alla sfrontatezza dei marchi del capitalismo che avanzano col placet del politburo. Così come ad Hanoi, anche a Sapa (e nella maggior parte delle città del paese), le bandiere sono affisse ad ogni lampione di ciascuna strada, ogni giorno dell’anno.
 
Da tempo il Vietnam sta abbracciando il modello cinese: la Cina non è solo un punto di riferimento politico ma anche di organizzazione sociale. Il marxismo-leninismo vietnamita significa semplicemente “democrazia a partito unico”. Dunque: forte controllo statale e pianificazione economica ma anche libero mercato e libero accesso ad internet. Allo stesso modo i pagamenti possono essere effettuati elettronicamente con QrCode (o con carte Visa) anche nei mercati più lontani dalle città. La moneta locale soffre la svalutazione e il cambio Euro/Dong (1 euro vale circa 29.000 Dong) assomiglia alle immagini del Marco durante la Repubblica di Weimar sui libri di scuola. A Sapa estrema ricchezza ed estrema povertà si incontrano prendendo un taxi oppure girando per le strade in cui donne e bambini di varie etnie ballano per pochi Dong mentre vengono filmate da avidi turisti (che poi posteranno quei video su TikTok generando, sicuramente, il triplo del profitto). 
 
Allo stesso modo ad Ho Chi Minh City, già Saigon, ex fortezza statunitense del sud, la musica non cambia. Anzi, peggiora. Grattacieli, vetrine di Dior, Tiffany, H&M, fast food, gioiellerie costosissime e negozi d’alta moda abbracciano le grandi arterie che portano al centro della città, nella fu zona vecchia, ora una delle più ricche del sud. Gli statunitensi hanno perso la guerra cinquantanni fa e tutto il paese è in festa: la riunificazione è motivo di unione patriottica della nazione riconciliata da chi aveva messo i vietnamiti l’uno contro l’altro (prima la Francia, poi gli Usa) ma è anche l’occasione per guardare ancora più criticamente il doppio volto del sistema che regge il Vietnam. 
 Il mercato ha battuto ogni ideologia. Gli iPhone hanno sostituito il motto della rivoluzione che recitava: «mangia la metà, lavora il doppio per raggiungere gli obiettivi dello zio Ho». TikTok, Instagram e mille altre piattaforme hanno mutato alla radice la consapevolezza della nazione. Le immagini di Ho Chi Minh sono, ormai, sovrastate dai centri commerciali in stile occidentale.

Pubblicato su L’Eco di Bergamo del 16 giugno 2025 

Caso Almasri, parla Lam Magok che ha denunciato il Governo per favoreggiamento

«La mia lotta è per i rifugiati, per i migranti e per gli italiani tutti. Lo stato non sta rispettando le regole e se succede è un danno per chiunque». A parlare è Lam Magok Biel Ruei: 32 anni, rifugiato politico proveniente dal Sud Sudan. È arrivato in Italia nel 2022 riuscendo a sopravvivere alla prigionia in un centro di detenzione a Tripoli (Libia): «l’ultima prigionia è durata complessivamente 9 mesi», di cui 6 trascorsi a Mitiga. «Ero in una delle cosiddette Almasri prisons [prigioni poste sotto il controllo di Almasri]». Per arrivare in Italia dal sud Sudan esiste un corridoio umanitario  che, però, s’interrompe: le persone finiscono così direttamente tra le braccia dei trafficanti e nei centri di detenzione in Libia. Un approdo non sicuro a tutti gli effetti ma con cui il Governo italiano deve fare i conti per far sì che possa dar seguito alla retorica della riduzione degli sbarchi. Mediaticamente funziona: le percentuali contano più delle vite umane in termini elettorali. È la spietatezza della realpolitik. Il caso dell’arresto e successivo rimpatrio del generale Osama Almasri («Capo della polizia giudiziaria di Tripoli») da parte del Governo italiano ha riacceso il dibattito politico sull’immigrazione e sui centri di detenzione in Libia, da cui proviene Lam e che abbiamo intervistato insieme ad Alice Basiglini dell’associazione Baobab (realtà che gli ha fornito supporto legale per la sua azione). Le parti sono venute a contatto nel 2021 a seguito dell’onda lunga delle proteste condotte dal movimento Refugees in Libya.
Quando Lam ha appreso della notizia dell’arresto di Almasri ha subito pensato che giustizia fosse fatta ma gli eventi non sono andati come avrebbe sperato e la fragile fiducia è immediatamente crollata: «è in quel momento che ho maturato la decisione di denunciare il governo», insieme a David Yambio, conosciuto durante una delle detenzioni.
La vicenda è ormai tristemente nota perlomeno da quando il 28 gennaio [2025] la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha diffuso il video messaggio in cui mostrava l’avviso di garanzia ricevuto e giunto anche «ai ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano» a seguito (sebbene Meloni avesse cautamente detto «presumo») «di una denuncia presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti». 
A seguito di quell’episodio, giunge la denuncia di Lam: «L’Italia è un membro della Corte penale internazionale e questo significa che se c’è un mandato a cui non viene dato seguito c’è un problema evidente», afferma. «La ragione per cui denuncio – ha proseguito Lam Magok – è che io sono in Italia in quanto rifugiato e vittima delle torture subite in Libia da Osama Almasri» e la decisione del suo rimpatrio lo ha reso «doppiamente vittima». Lam sta combattendo questa battaglia perché «se il Governo non rispetta le regole non le rispetterà né per gli immigrati né per gli italiani» e lo dice da un punto di vista tutto peculiare, cioè essendo «rifugiato che sta vivendo in Italia», dunque sentendosi parte del Paese. 
La decisione assunta da Lam è stata totalmente d’iniziativa personale ma, con tutta evidenza, non poteva essere condotta da lui solo: «per avviare un procedimento del genere c’è bisogno di un ufficio legale, in questo caso messo a disposizione da Baobab» a cui si è rivolto chiedendo aiuto.
Quando chiediamo a Lam se la Libia sia un paese sicuro per chi arriva dal sud Sudan, lui non esita a rispondere laconicamente: «No, non lo è». «La Libia – prosegue – non è un paese sicuro» ma per arrivare a conoscere, capire e comprendere la situazione presente nel paese bisogna fare uno sforzo. Ci sono vari rappresentanti politici che si contendono il territorio divenuto estremamente granulare dopo la destituzione di Gheddafi: «quando si parla di Guardia costiera libica si potrebbe far riferimento a tre istituzioni diverse», rincara la dose Alice Basiglini. Milizie che si contendono il territorio, generali che sembrano sceriffi dei film spaghetti western: una situazione che sta mantenendosi nel caos generale molto più a lungo di quel che analisti ed esperti prospettavano. «Si tratta di un paese rarefatto – afferma la rappresentante di Baobab – in cui manca un potere centrale con cui confrontarsi ufficialmente e in cui c’è in atto uno scontro fra più parti le quali rappresentano organizzazioni (di fatto) criminali e non sappiamo a chi rispondono». «Le organizzazioni internazionali conoscono qual è la situazione sul terreno ma non danno notizie sulla situazione: c’è la guerra, ci sono le milizie e la situazione è insostenibile», afferma Lam Magok. Sanno ma cercano di ‘salvare il salvabile’ poiché avere una negoziazione con le autorità libiche è praticamente impossibile. Una strategia che potremmo chiamare di «riduzione del danno», sostiene Alice Basiglini. «È chiaro che si tratta di una situazione complicata che deriva dal loro status nonché dal meccanismo di finanziamento, nonostante sappiamo bene che i pochi corridoi umanitari in atto siano organizzati e operati da Unhcr (cioè l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati)». Ma il numero di persone che riesce a passare attraverso i corridoi di Unhcr è esiguo rispetto al totale che finisce tra le maglie dei trafficanti e la stessa presenza delle organizzazioni internazionali non implica – purtroppo – la garanzia della difesa dei diritti umani. Tutto il resto è tortura (e propaganda politica conseguente). 
Articolo pubblicato su L’Eco di Bergamo

Bolivia, due parti in lotta per uno stesso partito.

Centinaia di persone riversatesi in Piazza Murillo, là dove si trova Palacio Quemado (il palazzo del governo boliviano), gridano improperi al «governo traditore» cercando di forzare il blocco della polizia. È il 14 gennaio [2025] e la dimostrazione di piazza chiede di consegnare una «petizione popolare contro l’aumento dei prezzi degli alimenti di base», per denunciare la «mancanza di carburante nella gran parte delle stazioni di servizio del paese» e chiedendo le dimissioni del governo di Luis Lucho Arce Catacora, esponente del Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp). Gli animi si surriscaldano: manifestanti e polizia vengono a contatto. La manifestazione viene così sciolta con l’utilizzo della forza.
È la Marcia per la vita per cui i manifestanti hanno percorso 85 chilometri a piedi dalla città di Patacamaya a La Paz: sembrerebbe una ordinaria (benché forte) dimostrazione di contestazione da parte dell’opposizione a Luis Arce. Ma l’opposizione non c’entra davvero: i manifestanti appartengono al medesimo partito del Presidente. In Piazza Murillo c’erano i fedelissimi di Evo Morales, già presidente boliviano e figura di spicco del Mas-Ipsp. Due parti in lotta per uno stesso partito. Entrambi ne rivendicano il nome, la storia e la legittimità. 

«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», dichiara a «L’Eco di Bergamo» Julia Damiana Ramon Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramon Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – aggiunge Ramon Sanchez – «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione».
Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.

Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite un’emittente radiofonica a lui vicina (Radio Kawsachun Coca). Per dare un’idea dello scontro: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente erano durati più di un mese e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l’Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.

«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», spiega a «L’Eco di Bergamo» da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (caso avvenuto due lustri fa): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. 

«Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige. Un costume, purtroppo, diffusissimo nel Paese: «Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scolastiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni»

La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore.
La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), si appresta a celebrare il giorno della nascita dello Stato plurinazionale (22 gennaio 2009) in un clima più che teso. Dopo sedici anni da quel giorno, il paese non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.

Articolo pubblicato su L’eco di Bergamo del 2 febbraio 2025

I bergamaschi in Bolivia. Una chiesa con il popolo [«L’Eco di Bergamo» del 31/10/23]

La seguente intervista è stata pubblicata sull’edizione cartacea de «L’Eco di Bergamo» del 31/10/2023. Felice e onorato di essere stato inserito nella pagina prima del Concilio, ho realizzato quest’intervista a Riccardo (pardon, Don Riccardo) quando io e Maria eravamo da lui in Bolivia.

Da Telgate a La Paz. Un viaggio, quello di Riccardo Giavarini (da poco don), che dura da 47 anni: «Sono qui da così tanto tempo che ormai mi sono innervato nella cultura di qui: non riuscirei a pensare di tornare in Italia”. Questo è quello che si sente di dire quando qualcuno gli chiede se si senta ancora un missionario (nel senso stretto del termine).

Eppure il legame che c’è tra Bergamo (e la sua provincia), La Paz, El Alto e altre località boliviane (Cochabamba, Santa Cruz e via dicendo) è più che evidente: basta andare alla parrocchia di Munaypata. Lì si viene accolti da un altro sacerdote bergamasco (Don Giovanni) e gli occhi occidentali arrivati in terra sudamericana non possono fare a meno di notare il grande murale che campeggia all’ingresso dell’edificio: “60 anni. Chiesa di Bergamo – Iglesia de Munaypata”. Un legame talmente solido che nel 2022 ha compiuto, per l’appunto, il ragguardevole traguardo di sei decenni di cooperazione e collaborazione.

 

«Prima di essere sacerdote sono stato quaranta anni insieme a mia moglie, Berta, morta di Covid due anni e mezzo fa» – ha raccontato Giavarini – «mi sento molto accompagnato da lei, anzi, non posso fare, organizzare e pensare progetti senza pensarla: sento forte la sua presenza e la relazione strettissima con lei»

La vita di Don Riccardo, basti notare il predicato anteposto, è cambiata dal giorno in cui ha deciso di riprendere in mano la vecchia idea del sacerdozio: «Ora ho una parrocchia alla periferia di El Alto, mi sto integrando al clero locale e nel frattempo mantengo gli impegni che già prima caratterizzavano l’agire quotidiano: il carcere minorile “Qalauma”, dunque il tema della giustizia riparativa (insieme all’impegno analogo di Mario Mazzoleni a Santa Cruz); gli impegni legati alla Fundacion “Munacim Kullakita” [di cui ricopre la carica di direttore generale]; l’azione riguardante l’immigrazione di transito in Bolivia (di chi viene dal Venezuela, dalla Colombia, da Haiti per poter raggiungere il Cile o l’Argentina). Così come l’Italia.»

 

L’unione che c’è tra Bergamo e La Paz è piuttosto sui generis e ha inizio nel 1962. Tu che ci vivi da quarantasette anni, potresti spiegarci com’è avvenuto questo sodalizio?

«Succede che durante i lavori del Concilio Vaticano II dei vescovi boliviani si sono recati da Papa Giovanni XXIII e gli hanno rivolto una richiesta esplicita di aiuto a causa dello scarso numero di preti presenti nel paese. Il Papa accoglie questa istanza e coinvolge immediatamente il vescovo di Bergamo, gli gira la richiesta dei vescovi boliviani e da lì è cominciato tutto. Tra i due pionieri bergamaschi c’era Don Berto Nicoli e da allora sono giunti qui più di trecento persone dalla bergamasca tra preti, suore e laici». 

Quali sono stati gli interventi maggiori nella società boliviana in questi decenni?


«Si sono costruiti ospedali, scuole, parrocchie, centri d’accoglienza e centri per l’infanzia per bambini orfani con problemi familiari. Quest’ultima realtà, la “Ciudad del nino” prima era attiva a La Paz e ora s’è spostata nel sud-est del paese, a Cochabamba».

Spesso le missioni – o i progetti conseguenti – vanno sfaldandosi se non c’è ricambio generazionale, in questo caso l’intervento bergamasco è andato sviluppandosi sempre più, come in un costante crescendo, o sbaglio?


«È proprio così: c’è stata fin da subito una sorta di alleanza tra Bergamo e il clero di qui. Le città coinvolte non sono state solamente El Alto e La Paz ma anche Cochabamba e Santa Cruz. Molti preti si sono recati anche in zone rurali e montane fronteggiando molteplici difficoltà ma, da bravi bergamaschi, hanno affrontato le asperità con coraggio e cuore».



Un sodalizio così forte che ha fatto nascere il ‘Gruppo Bergamo’ fin dai primi giorni di presenza nella capitale boliviana, quest’anno sono “sessantuno candeline”.


«Ogni anno, a Pasqua e dopo il 2 novembre, ci incontriamo per un momento di ritiro, di studio della realtà nazionale e non solo. Stiamo parlando di un gruppo di residenti in Bolivia (attualmente circa 40) la cui porzione più folta tempo addietro era quella dei sacerdoti, ora la percentuale di laici è maggiore. Alcuni preti del gruppo sono stati anche eletti vescovi: Angelo Gelmi, Eugenio Scarpellini, Sergio Gualberti (arcivescovo di Santa Cruz), Eugenio Coter e sicuramente ne dimentico molti altri, ma il punto è che queste figure che ho citato hanno contribuito enormemente al rafforzamento dei rapporti tra la diocesi di Bergamo e la chiesa locale. L’altr’anno in occasione dei sessanta anni della presenza bergamasca a La Paz è venuto anche il vescovo Beschi proprio per celebrare questo anniversario».

E tu come ci sei finito qui?


«Sono arrivato qui da laico in alternativa al servizio militare ma comunque legato al “Gruppo Bergamo”, che già esisteva da qualche anno: era il 1976».



Come si è svolta la tua attività in quest’altra parte di mondo?


«Dapprima sono stato a La Paz, poi a Cochabamba, sempre con l’idea di continuare gli studi di teologia, dato che in Italia avevo conseguito la maturità classica in seminario. Dopodiché nella pastorale giovanile ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie: Berta. Da quel momento è cambiato l’orientamento vocazionale».

Certo è che negli anni ’70 e ’80 in Bolivia la situazione socio-politica non era molto stabile…

«Era il periodo delle dittature. C’era molta instabilità sociale, politica ed economica e durante l’ultimo colpo di stato sono riuscito a fuggire alla vigilia del golpe e non sono più potuto rientrare in Bolivia – insieme ad altri – per un periodo di tempo: ero schedato ed eravamo minacciati. Facevamo resistenza al regime dei militari: accoglievamo dirigenti dissidenti e li nascondevamo; facevamo formazione politica ai ragazzi; resistevamo partecipando anche ai movimenti sociali. Personalmente ho anche partecipato a uno sciopero della fame condotto dalle dirigenti minatrici che protestavano contro il generale Banzer Suarez (il cui golpe fu nel 1971) e in poco tempo questo movimento si è esteso in tutto il Paese».


Tu dove ti trovavi in quel periodo?


«Ero a Cochabamba ma subito mi sono attivato per prendere parte a questo movimento sociale molto vasto e diffuso in tutto il paese. E con lo sciopero della fame chiedevamo elezioni libere, il rientro di minatori esiliati, lo ‘stop’ alla repressione per i movimenti sociali, la libertà di associazione e via dicendo».

Il “Gruppo Bergamo” ha preso parte alla vita sociale e politica boliviana a tutti i livelli, non solamente nell’ambito religioso, dunque?


«Assolutamente. C’erano anche preti piuttosto impegnati politicamente in quanto formavano quadri dirigenti dell’Ipsp (‘Instrumento politico por la soberania de los pueblos’) cioè il movimento che ha dato vita al Mas (‘Movimiento al socialismo’), attuale partito di governo. Si impegnavano a proteggere le persone più esposte come alcuni dirigenti sindacali e li nascondevano nelle parrocchie o li facevano scappare in Perù. In quel periodo, poi, andavamo nelle carceri di massima sicurezza a incontrare e parlare con i prigionieri politici e le loro famiglie. Avevamo sviluppato un vero e proprio movimento di resistenza: il Monsignor Manrique (allora arcivescovo di La Paz) si era posto addirittura davanti ai carri armati dei militari per frenare con il suo corpo la violenza e la prepotenza dei militari».

Una chiesa che prende parte, una chiesa totalmente differente dal ruolo che spesso ha interpretato in America Latina nei confronti delle dittature cilene, ad esempio.


«Era una chiesa molto più coraggiosa, oserei dire. Una chiesa che ha pagato di persona, basti ricordare il martirio di Luiz Espinal, così come Alfonso Romero in altri contesti. Ma Espinal, gesuita e giornalista, aveva fondato un giornale che si chiamava ‘Aquì’ in cui denunciava forme di violenza, torture, casi di desaparecidos, chiusura dei mezzi di comunicazione e via dicendo. Durante l’ultimo colpo di stato, ad opera di Garcia Mesa, è stato torturato e brutalmente ucciso. Come lui, altre figure sono state capitali nella resistenza ai militari: i minatori, ad esempio, sono stati la colonna portante delle proteste e hanno rappresentato la punta più avanzata della coscienza civile e di classe sociale contro i vari golpe. Molti sono stati cacciati dalla Bolivia e non hanno più potuto far ritorno nel proprio paese. C’è poi da considerare che l’ex presidente Evo Morales si è formato anche grazie ad occasioni e momenti di formazione promossi dalla chiesa cattolica. Allo stesso modo molti dirigenti del Mas erano catechisti: alcuni hanno fatto bene, altri non troppo, ma “l’uomo è sempre l’uomo”».

Cos’ha lasciato (e cosa sta continuando a costruire) la presenza bergamasca in Bolivia?

«Penso che abbiamo lasciato (e continuiamo a farlo) un’impronta molto importante qui non tanto per le costruzioni o gli edifici eretti, quanto piuttosto riguardo la qualità dell’intervento effettuato. La gente di Bergamo è riuscita ad “inculturarsi” molto nella realtà locale: le parrocchie che venivano gestite da preti bergamaschi non erano solo luoghi di culto in cui si diceva messa e si professava una fede chiusa: erano luoghi aperti. Siamo intervenuti – e interveniamo – nell’ambito sanitario, scolastico e penitenziario, così come la formazione politica delle persone e riguardo l’emancipazione femminile».