Né scià, né ayatollah: il futuro dell’Iran sarà democratico

«Non abbiamo bisogno di un ritorno al passato: non ci interessa la monarchia. Vogliamo un Iran democratico, libero e laico», a parlare è il dottor Khosro Nikzat, cardiochirurgo presso l’Ospedale di Cuneo. Presidente dell’Associazione dei dottori e farmacisti iraniani in Italia, Nikzat è scappato dall’Iran quando l’ayatollah Khomeini riuscì a prendere il potere a seguito della rivoluzione che fece cadere lo scià Mohammad Reza Palavi.

Senza lieto fine

Quella dell’Iran è una storia che in pochi ricordano: gli avvenimenti dell’ultimo ventennio tendono a sovrastare quanto vissuto dal paese nel recente passato. Nel 1979 la società iraniana stava attraversando un periodo di forte fermento culturale, politico e sociale. La popolazione non supportava più il potere di Reza Palavi, dunque della monarchia: voleva un cambio radicale dell’assetto statale. Si era messa in moto una nazione intera: dalle associazioni politiche liberali a quelle comuniste e socialiste, dai laici ai sostenitori di Khomeini. Subito dopo la caduta dello Scià, tuttavia, la parte religiosa oltranzista ha prevalso sulle altre e lo stato diventò sì una repubblica ma confessionale: la Repubblica islamica dell’Iran. Spesso, osservando i processi rivoluzionari nella storia, sfugge la molteplicità di attori che sono parte di un movimento per un medesimo obiettivo, pur con fini diversi. «Sono arrivato in Italia nel 1979, sei mesi dopo la cacciata del potere monarchico: da quel momento non ho più fatto ritorno nel mio paese d’origine», Nikzat voleva studiare medicina in Italia «con la speranza di tornare».
Ma questo suo desiderio non si è mai avverato.

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«Quando ho intuito cosa stava accadendo – prosegue Nikzat – ho capito che non sarebbe stato più possibile tornare in Iran: mi sono dichiarato ufficialmente contro il regime degli ayatollah, dunque mi è stato impossibile tornare in Iran». Tornare avrebbe significato esporsi a pericoli enormi: l’opposizione non era accettata da Khomeini, né ora da Khamenei, tanto meno sono tollerate manifestazioni di dissenso.

La Resistenza (in esilio) si organizza

La diaspora iraniana ha fatto sì che venissero a crearsi dei focolai di resistenza alla Repubblica islamica. L’esperienza più longeva, al momento più consistente nonché riconosciuta da molti paesi a livello internazionale, è il Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri) di cui l’organizzazione dei Mojahedin del popolo è tra i maggiori esponenti, l’attuale presidentessa è Maryam Rajavi, moglie dello storico leader Massoud Rajavi scomparso nel 2003. «Il 52% degli organismi direttivi del Cnri – spiega Nikzat – è composto da donne», tra cui figura anche Zolal Habibi che nel 1988, a seguito dell’uccisione del padre da parte del regime, inizia ad intraprendere la lunga marcia che l’ha successivamente condotta all’attuale impegno politico. Nata negli Usa, è componente della resistenza dall’88: un passato in Italia e ora è di base a Parigi.

«La resistenza iraniana – prosegue il dottore – si divide in tre tronconi: la prima, diplomatico-politica, ha sede a Parigi; la seconda è in Albania, nel campo-città Ahsraf 3, a 30km da Tirana, in cui vivono i membri della resistenza; la terza è in Iran ed è formata dalla rete delle Unità di rivolta che organizzano proteste e azioni di sensibilizzazione nel paese». Parte della resistenza, o meglio, simpatizzante del Cnri e di Rajavi, è anche l’associazione dei Giovani iraniani la cui portavoce è Azar Karimi. Romana, classe ‘86, figlia di esuli che hanno vissuto le proteste contro Reza Palavi, non ha mai visto l’Iran ma si riconosce «nel programma di transizione» della resistenza proposto da Rajavi.

«Il popolo iraniano sa da sé come rovesciare questo regime», sostiene fiduciosa Karimi, «anche grazie alle azioni che i nuclei di resistenza» conducono dentro e fuori l’Iran.

Certo è che se l’opposizione dovesse riuscire ad andare ora al potere, la situazione non sarebbe facile da affrontare: la guerra con Israele è ancora alle porte e la tregua – pur siglata – ha l’aria di durare ben poco. Ma su questo Nikzat non nutre particolari dubbi: «la guerra finirebbe dal momento che riconosceremmo entrambi gli stati come indipendenti: quello di stato di Israele e quello di Palestina», «il regime» avrebbe continuato «a cavalcare il conflitto tra le parti» per sperare di espandere la propria area d’influenza in Medio Oriente.

Verso la democrazia

«Nella difficile situazione in cui versa l’Iran – sostengono sia Karimi che Nikzat – sebbene il passato possa presentarsi come ‘nuovo’, l’alternativa non è il ritorno alla monarchia ma sarà la repubblica democratica». In cosa consiste, allora, la transizione proposta da Mariam Rajavi? Transizione democratica e instaurazione di una repubblica laica, separazione tra religione e stato, abbandono del programma nucleare, pari diritti di genere, disconoscimento della sharia e sospensione della pena di morte.

Articolo pubblicato su L’Eco di Bergamo il 3 agosto 2025