Bolivia, due parti in lotta per uno stesso partito.

Centinaia di persone riversatesi in Piazza Murillo, là dove si trova Palacio Quemado (il palazzo del governo boliviano), gridano improperi al «governo traditore» cercando di forzare il blocco della polizia. È il 14 gennaio [2025] e la dimostrazione di piazza chiede di consegnare una «petizione popolare contro l’aumento dei prezzi degli alimenti di base», per denunciare la «mancanza di carburante nella gran parte delle stazioni di servizio del paese» e chiedendo le dimissioni del governo di Luis Lucho Arce Catacora, esponente del Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp). Gli animi si surriscaldano: manifestanti e polizia vengono a contatto. La manifestazione viene così sciolta con l’utilizzo della forza.
È la Marcia per la vita per cui i manifestanti hanno percorso 85 chilometri a piedi dalla città di Patacamaya a La Paz: sembrerebbe una ordinaria (benché forte) dimostrazione di contestazione da parte dell’opposizione a Luis Arce. Ma l’opposizione non c’entra davvero: i manifestanti appartengono al medesimo partito del Presidente. In Piazza Murillo c’erano i fedelissimi di Evo Morales, già presidente boliviano e figura di spicco del Mas-Ipsp. Due parti in lotta per uno stesso partito. Entrambi ne rivendicano il nome, la storia e la legittimità. 

«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», dichiara a «L’Eco di Bergamo» Julia Damiana Ramon Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramon Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – aggiunge Ramon Sanchez – «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione».
Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.

Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite un’emittente radiofonica a lui vicina (Radio Kawsachun Coca). Per dare un’idea dello scontro: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente erano durati più di un mese e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l’Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.

«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», spiega a «L’Eco di Bergamo» da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (caso avvenuto due lustri fa): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. 

«Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige. Un costume, purtroppo, diffusissimo nel Paese: «Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scolastiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni»

La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore.
La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), si appresta a celebrare il giorno della nascita dello Stato plurinazionale (22 gennaio 2009) in un clima più che teso. Dopo sedici anni da quel giorno, il paese non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.

Articolo pubblicato su L’eco di Bergamo del 2 febbraio 2025

Morales accusato di stupro ma in Bolivia la violenza sessuale è ovunque

«In Bolivia lo sfruttamento sessuale è praticamente endemico». Così
come la violenza «che sia sessuale o dopo una partita di calcio», a
parlare è don Riccardo Giavarini, Direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita [dall’aymara: ti voglio bene, sorellina] e nel lavoro quotidiano si occupa di sfruttamento ai danni di ragazze minori e adolescenti, di tratta e traffico. Bergamasco
di Telgate, ordinato sacerdote a seguito della ripresa degli studi per
il sacerdozio dopo la prematura scomparsa della moglie Berta (tra le
fondatrice del Mas-Ipsp, impegnata nella tematica della liberazione
della donna, poi uscitane per divergenze con la dirigenza), è a La Paz dal 1977. La Bolivia la conosce piuttosto bene. Raggiunto da Pressenza, ci risponde dalla sua abitazione alla periferia di El Alto.
Alla periferia della periferia del mondo.

In queste settimane la stampa boliviana,
internazionale e anche italiana (sebbene nel nostro paese la notizia non
abbia avuto una grande eco), sta dando conto di uno scandalo che
avrebbe coinvolto l’ex presidente boliviano Evo Morales, attualmente
figura di spicco del Mas-Ipsp di cui ne è presidente e ufficiosamente candidato alle prossime elezioni presidenziali. Morales sarebbe accusato di stupro di una ragazza adolescente:
un’accusa su cui una giudice di Tarija sta lavorando e per cui ci
sarebbe stato il caso di un figlio nato da una unione con Morales. Le
prove ci sarebbero e per questo questo è stato emesso un ordine di
cattura nei confronti dell’ex presidente il quale non si è presentato
all’udienza al tribunale di un pugno di giorni fa, preferendo un aureo
isolamento nella regione del Chapare.

I casi di violenze sessuali, domestiche e di genere sono tuttavia in costante aumento in tutta la Bolivia: «Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi». Ci sono varie motivazioni, secondo Giavarini: «la prima è che manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità. Né in famiglia, né a scuola e né da parte istituzionale vengono veicolati messaggi ed esempi positivi» quindi «i ragazzi prendono alla leggera il rapporto uomo/donna e lo interpretano solo come occasione di ‘divertimento’». La relazione non è basata sul rispetto quanto,
piuttosto, sulla volontà di dimostrare che esiste una disparità tra
sessi. Una condizione così pervasiva tale da essere presente anche negli
altri istituti penitenziari non minorili, ad esempio in quello di San
Pedro (La Paz). «La seconda motivazione – continua il sacerdote – è
quella legata al fattore culturale». In altre parole: «machismo e cultura dello stupro». Già quando nasce una bambina «si sente spesso dire da parte dei genitori “è solo una femmina”», come a voler sottintendere una sconfitta sociale.
Nella parte di mondo che abita Giavarini: «si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile come strumento di piacere maschile»,
si ragiona per «stereotipi diffusi» da più parti. La donna non è vista
come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità, uguaglianza: «qui a El Alto le ragazzine popolano locali notturni:
è una cosa naturale che loro siano lì disponibili a fornire prestazioni
sessuali». Nei colloqui informali che conduce don Giavarini, nel
contesto carcerario e nel settore di competenza della Fundacion Munacim
Kullakita, è ravvedibile una pervasività della violenza domestica
perpetrata dai mariti nei confronti delle mogli, più in generale da
parte degli uomini.

Quella di Evo Morales sembra essere – purtroppo – solo la
punta di un proverbiale iceberg di violenze e soprusi nei confronti
delle persone e delle donne in particolare
. «Le notizie di
questi giorni parlano delle accuse rivolte a Morales ma – precisa
Giavarini – qui in Bolivia stanno uscendo dati secondo cui non sarebbe
accaduto solo un caso ascrivibile a questa tipologia di reato, anzi: più
d’uno». Alcune deputate boliviane hanno accusato pubblicamente Evo
Morales nel Palazzo rincarando sui suoi possibili rapporti con delle
minorenni «addirittura facendo illazioni su contropartite sessuali in
cambio di progetti e realizzazioni di opere presso comunità rurali o
montane», da sempre più vicine all’ex Presidente dello Stato
Plurinazionale di Bolivia.

Ma il silenzio assordante è quello delle Bartolinas, l’organizzazione femminile del Mas-Ipsp: «le donne del partito sono spaccate tanto quanto lo è l’organizzazione, che, per la verità, lo è da due anni a questa parte: le strenue sostenitrici di Morales continuano a incoraggiarlo mentre quelle pro Luis Arce lo accusano».
Una situazione piuttosto delirante.
Tanto più che Morales ora starebbe accusando la giustizia boliviana di persecuzione contro la sua persona
e non si è mosso dal Chapare, la regione in cui si sente politicamente
(e psicologicamente) più forte, sicuro e tutelato dalla federazione dei
coltivatori di coca (i cocaleros, riuniti nella Seis federaciones del Tropico de Cochabamba) di cui è tutt’ora presidente. Sindrome dell’accerchiamento più volte manifestata da Morales nel corso degli ultimi 24 mesi.
Certo è che finché presidenti (o ex) o figure pubbliche di spicco nella
società (siano esse di appartenenti a organizzazioni politiche di
maggioranza o di opposizione), si mostrino come esponenti del più bieco machismo, significa che il problema è molto più imponente di quel che è emerso nel corso di questi giorni.
Il rischio di impunità per questi fatti, secondo Giavarini, è altissimo:
«c’è da sviluppare un lavoro di rete che sia il più articolato
possibile a tutti i livelli sociali, così come di interlocuzione con lo
Stato» per far sì che si giunga «ad una seria consapevolezza riguardo i
temi della tratta e dello sfruttamento sessuale non soltanto a seguito
dell’onda mediatica di uno scandalo come questo ma tutti i giorni».

Articolo pubblicato su Pressenza.com

Cosa sta succedendo (e cosa succederà) in Bolivia

«L’unico soggetto che può rovesciare il governo è il popolo: la democrazia boliviana può difenderla solo il popolo boliviano», è stato Luis Arce (presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia) a dirlo, a scandirlo nel microfono e nel megafono che gli veniva posto davanti alle labbra, insieme al suo vice David Choquehuanca, dal balcone del Palazzo del Governo (Palacio Quemado) in Piazza Murillo, nel pieno centro di La Paz.

Sono le 17:30 di mercoledì 26 giugno [2024] e il tentato golpe promosso dall’ormai ex capo delle forze armate boliviane Juan José Zúñiga è durato solo tre ore e parrebbe essere già terminato. Zúñiga è stato destituito e il presidente Arce ha nominato un nuovo comandante dell’esercito (il quale ha provveduto immediatamente a liberare la Piazza e a ritirare le truppe), azzerando anche le cariche dei graduati che hanno prestato il fianco all’operazione.

Attorno alle 14:30, la città di La Paz, la Bolivia intera, ha dovuto fronteggiare una situazione che per la storia del paese non è affatto nuova, ma certamente è stata inaspettata in questa circostanza, nonché per Arce e il suo vice Choquehuanca.
Blindati e componenti dell’esercito hanno bloccato i quattro lati di Piazza Murillo e un automezzo armato di mitragliatrice è riuscito ad arrivare a un passo dalla porta d’entrata di Palacio Quemado: dentro probabilmente, come hanno riferito fonti della stampa locale e dell’America Latina, c’erano i due ex, gli unici arrestati al termine della giornata. Ovvero: Juan José Zúñiga e il vice ammiraglio Juan Arnez Salvador.

Aparece un video del tenso encuentro de Luis Arce con los militares golpistas en el Palacio Quemado, Bolivia. pic.twitter.com/U9kGIW1apg

— Sepa Más (@Sepa_mass) June 27, 2024

Zúñiga, per la verità, non parrebbe aver agito senza sapere quel che stava facendo: nei giorni scorsi antecedenti al tentativo di golpe era stato raggiunto dai microfoni della trasmissione No mentiras e, intervistato dalla popolare giornalista Jimena Antelo, rispondeva così: «Gli altri comandanti non erano come me: io non ho paura. Sono un militare e un militare giura sulla Costituzione per difendere la sua patria e il suo popolo». Secondo l’ex capo dell’esercito, lo Stato non era più in grado di mantenere la legalità attraverso la Costituzione, anche a causa del fatto che si stia tacitamente permettendo che l’ex presidente Evo Morales potesse ancora proporsi per un nuovo mandato alle prossime presidenziali: «Quell’uomo – ha dichiarato l’ex graduato a No mentirasnon può più essere Presidente di questo Paese […]. Legalmente non può farlo. La Costituzione dice che non può essere (Presidente) per più di due mandati ed è già stato rieletto tre, quattro volte. Le Forze Armate hanno la missione di far rispettare la Costituzione Politica dello Stato». Una tensione vibrante che a La Paz e Sucre (le due capitali) si respirava già da giorni, evidentemente.

Mentre il tentativo di golpe era in atto, Zúñiga ha continuato a rilasciare interviste alla stampa, in particolare una dichiarazione, ripresa anche da Correo del Sur farebbe riflettere sul senso dell’operazione e darebbe una chiave di lettura dell’azione: «La prenderemo [la Casa Grande del Pueblo]: ripristineremo la democrazia, libereremo i nostri prigionieri politici».
Così come al termine del tentato golpe, e prima di essere portato via dalla forza pubblica, stando al Correo del Sur, Zúñiga avrebbe affermato che la movimentazione di soldati e mezzi blindati sarebbe stata concordata col presidente Arce al fine di aumentarne la popolarità. Affermazioni di cui risponderà l’ex capo militare all’interrogatorio a cui verrà sottoposto.

Il partito di governo, il Mas (Movimento al socialismo), sembrerebbe essere il grande nemico dell’ex capo dell’esercito Zúñiga, sebbene la sua azione si fosse rivolta verso Evo Morales (ne aveva annunciato l’arresto in diretta tv), l’intenzione si rivolgerebbe effettivamente allo Stato a guida del partito di cui fanno parte anche Arce e Choquehuanca.

«Abbiamo vissuto, quel che si direbbe, “un giorno anomalo”», ha raccontato all’AtlanteDon Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundaciòn Munacim Kullakita di El Alto. «Ora si sta vivendo una relativa calma a La Paz: Arce ha pronunciato un discorso volto a rassicurare la popolazione, ha detto che la situazione è rientrata ed è tornata sotto controllo. Certo, di argomenti per contestare il governo ce ne sono, a partire dallagiustizia, se vogliamo fare un solo esempio dato che è uno dei miei campi».
La gente, però, ha risposto: «È scesa in strada sostenendo la democrazia e rigettando il tentato golpe dei militari – ha detto Giavarini – quindi effettivamente la situazione è tornata alla normalità».

Al momento pare di capire che in Bolivia ci sia più una sensazione di stasi, dunque bisognerà capire quale sarà la normalità a cui giungerà il paese.

«No hay plata!»

La situazione in Bolivia non è propriamente rosea. David Choquehuanca, vicepresidente dello stato Plurinazionale, in più di un’occasione nel corso del suo mandato ha ripetuto – pur senza fare nomi esplicitamente – che alcuni esponenti politici avrebbero rifiutato di approvare i crediti di cui vanta lo Stato. Sulle reti sociali dell’America Latina è diventato virale il primo video in cui Choquehuanca, durante un’iniziativa del suo partito, si è lasciato andare ad un commento quasi liberatorio, tanto era il peso specifico di quelle parole: «Stiamo in una situazione difficile: non ci sono soldi! (no hay plata!)». Un’eco di quella stessa espressione pronunciata durante il primo discorso da presidente dell’Argentina di Javier Milei: «No hay plata», scandendo ogni singola parola.

Difficile, ad ogni modo, dare torto a Choquehuanca, al netto dei soldi che devono tornare allo Stato e che non starebbero prendendo la via di Palacio Quemado: 1 boliviano attualmente vale 0,13 centesimi di Euro, viceversa per un Euro ci vogliono 7 bolivianos e 70 centavos. Lo stipendio medio di un meccanico si aggira attorno ai 500 bolivianos, poco più di 60€. Da mesi perdura, poi, una situazione di instabilità legata alle riserve di carburante e l’evento di ieri ha scatenato una ancor maggiore irrazionalità da parte dei consumatori e dei trasportatori, tanto che l’Agenzia nazionale idrocarburi (Anh) ha dovuto emettere un comunicato in cui si invita alla calma e assicura come la «fornitura di combustibili» sia «garantita in tutto il paese». Si può ancora comprare carburante, dice l’autorità, ed è anche garantita la vendita ma le lunghe code di camion al confine con l’Argentina che durano da settimane suggerirebbero l’esatto contrario. Eppure, nonostante la situazione di crisi politica e di difficoltà economica, la Bolivia continua ad essere vista come meta d’emigrazione per persone provenienti da Haiti e dal Venezuela.

 

 
L’eredità di Evo: i «due Mas»

Ma perché Zúñiga ce l’aveva con Morales, al punto di dichiarare di volerlo arrestare, per la faccenda della candidatura alle presidenziali?
Tutto è cominciato più di un anno fa, quando l’ex presidente boliviano Evo Morales ha annunciato di volersi candidare nuovamente alle presidenziali del 2025.
Una data cruciale per la Bolivia: è l’anno in cui si celebra il Bicentenario.
Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato ed ora esistono due parti del Mas (una evista e l’altra arcista) che sono letteralmente l’una contro l’altra.
Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto.
Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell’Ibce (l’Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l’economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso.
Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo di quest’anno (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l’amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede.
Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al Mas tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas (uno arcista l’altro evista).
I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.

 

 
«Autogolpe!» 
Eppure, dopo tutto quello che è successo, le organizzazioni di Cochabamba vicine alla Seis federaciones e fedeli a Morales, hanno serenamente parlato di autogolpe. L’esecutivo della Seis ha parlato esplicitamente di «pagliacciata». Elena Almendras, dirigente della Federazione delle Comunità Interculturali di Chimoré (Cochabamba), ha dichiarato che il tentativo di golpe è stato uno «spettacolo mediatico preparato mesi fa dal Governo» con l’obiettivo di aumentarne la popolarità.
La stessa Almendras, insieme alle organizzazioni sociali del Tropico, ha aggiunto: «poiché l’“autogolpe” non è andato come previsto, cercheranno di arrestare l’ex presidente Evo Morales».
Ancora una volta le realtà sociali, civili e associative vicine all’ex leader del Mas ingaggiano lo scontro frontale con l’altra fazione del partito, citando anche (e soprattutto, verrebbe da dire) la questione del golpe che sarebbe stato programmato. Tesi confermata anche nel corso della conferenza stampa del dipartimento di La Paz del Mas (evista): «Il Presidente e il suo Vice stanno generando paura nel popolo boliviano. Quello che è accaduto ieri [26 giugno] è stato chiaramente pianificato dalgoverno: un autogolpe».
Non si arriverà all’arresto di Morales, come ha dichiarato Almendras, ma certamente l’eredità di Evo è pesante, tanto quanto quel blindato che è andato a “bussare la porta” di Palacio Quemado. Un peso specifico, quello di Morales, con cui non solo il Mas, ma anche la società boliviana tutta dovrà fare i conti. E se una gran folla di gente è scesa in piazza sostenendo la democrazia e il presidente Arce nel momento di maggior tensione nel pomeriggio di ieri, è altrettanto vero che attorno ad esse si stava iniziando a radunare una piccola (ma rumorosa) folla di evisti in cui veniva scandito: «Esto no fue golpe, esto fue teatro [non è stato un golpe, è stato un teatro]».
La società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che è impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua.
Certo è che oggi si è giunti ad un punto da cui difficilmente si riuscirà a tornare indietro serenamente.

Tra Gesù di Nazareth e Karl Marx: la scelta (e la vita) di “Miguel”

Lo scorso anno, prima della partenza per la Bolivia, ci [a Maria e me] è stato regalato un libro [grazie Giusi!] scritto da Luca Bonalumi attorno alle disavventure rivoluzionarie di Antonio Caglioni a Viloco e nel paese che l’ha ospitato per molti decenni. Una volta giunti dall’altra parte del mondo, siamo andati a conoscere Antonio Caglioni e abbiamo trascorso del tempo con lui, pur alloggiando a Cairoma (cittadina vicina a Viloco).

Per chi volesse, questi sono i due link agli articoli scritti a Cairoma su Antonio Caglioni e sul sistema sanitario a 5200 metri d’altitudine: Il sacerdote rivoluzionario alla fine del Mondo e Sanità pubblica e privata in Bolivia. Cercando l’assistenza capillare, trovando disordine generale.

L’introduzione al libro di Bonalumi è firmata da Don Emilio Brozzoni, sacerdote come Antonio Caglioni (a cui è davvero difficile anteporre il don davanti al nome, ma questo – a parere di chi scrive – rientra tra i pregi piuttosto che nell’ambito opposto dei difetti), bergamasco come lui, ma fenomenologicamente agli antipodi.

Don Emilio nell’introduzione racconta di un episodio curioso: una volta ricongiuntosi con Riccardo Giavarini a La Paz (don anche lui ma da soli due anni), decidono di andare a trovare Antonio Caglioni a Viloco. Il viaggio è lungo, le strade non sono agevoli ma finalmente – dopo varie ore di fuoristrada – riescono ad arrivare là, “alla fine del mondo”, a cinquemila metri d’altezza, ai piedi delle montagne popolate dai minatori di stagno in cerca della vena grande.
È il 1990, è notte e – c’è da immaginarselo – c’era una stellata meravigliosamente impressionante, data l’assenza di lampioni e illuminazioni per le vie della cittadina. Don Emilio, che immaginiamo si fosse già abituato alla mancanza d’ossigeno, riesce a prendere sonno e a dormire piuttosto bene, almeno fino a quando viene svegliato di soprassalto.

Di colpo, i tre (Caglioni, Giavarini, Brozzoni) sentono di non essere più soli: Don Emilio si sveglia e pensa ai ladri. Poi si guarda intorno: “ma che si ruberanno mai, qua” (di certo lo avrà pensato in bergamasco).
È un attimo: un uomo armato fino ai denti gli punta un fucile: «Eres Miguel?! [Sei Miguel?]» gli chiede insistentemente.

Non sa di cosa stia parlando e il commando armato si fa insistente: stanno cercando un Miguel, ex prete mezzo italiano, mezzo tedesco, e loro, tutti e tre italiani (due consacrati e un laico), senza documenti, sembravano essere il bersaglio perfetto. Miguel si sarà nascosto da quelle parti, ai piedi delle montagne popolate dai minatori per sfuggire allo Stato.

Però don Emilio non era Miguel e, nel testo d’introduzione al libro di Bonalumi, scrive un aneddoto molto divertente di quella notte in cui, dopo aver conosciuto personalmente Riccardo Giavarini, sono sicuro che si sia verificato esattamente come don Emilio ha raccontato: nel mezzo del trambusto, di uomini armati che fanno irruzione a casa di don Antonio, Riccardo cerca di placare gli animi chiedendo se – in piena notte – prendessero un caffè per poter parlare e chiarirsi.

«[…] Mi fanno alzare dal
letto (mani in alto), mettere pantaloni, scarpe e giacca a vento.
Bontà loro, niente manette ai polsi. Mi vogliono immediatamente
portare a La Paz. Riccardo intuisce che la situazione è grave e
vuole intavolare un minimo di dialogo: “Prendete un caffè o un tè?
Siete stanchi e la strada è lunga”»1.

Ma chi era Miguel?

Michael Miguel Nothdurfter era un italiano-sudtirolese di Bolzano che ha avuto una vita piuttosto intensa, una di quelle storie da raccontare, sebbene il tragico epilogo che ha avuto, ovvero ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia boliviana.
Scrive ancora don Emilio nell’introduzione al libro di Bonalumi:

«[…] Alle tre di notte
cinque di loro con il mitra circondano la casa di don Antonio e tre
in borghese sfondano la porta. Sono i tre che mi ritrovo davanti con
le pistole puntate. Finalmente viene a galla il motivo di questo
trambusto. È stato rapito il figlio del padrone della Coca Cola in
Bolivia. È ricercato un “terrorista” (così lo definiscono)
altoatesino, da ragazzo studente in un seminario di gesuiti,
impegnato politicamente con gruppi estremisti… Il filo logico è
chiaro. Hanno davanti un italiano, senza passaporto, col breviario,
nella casa di padre Antonio2,
in una regione fuori dal mondo. È lui. È Miguel. Sentono già
profumo di promozione».

Ma facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro.

A te che leggi: abbi pazienza. Sarà piuttosto lunga.

Il comandante Gonzalo va alla guerra

La vicenda di Nothdurfter viene raccontata dettagliatamente da Paolo Cagnan in un libro pubblicato nel 1997 [Il comandante Gonzalo va alla guerra, erremme, 20.000 lire, 175 pagine] ed è colmo di riferimenti, racconti, testimonianze raccolte in loco, chilometri macinati tra le città boliviane.

«Caro Fratello, il tempo
speso con i minatori di Potosì mi ha avvicinato alle persone. Le
cose per la Bolivia si stanno mettendo molto male. Il peso è stato
svalutato, i salari sono rimasti stagnanti: per le strade è
possibile vedere persone che piangono. Sono molto scioccato e solo a
vederli anche i miei occhi si appannavano»3.

Nothdurfter giunge in Bolivia il 26 agosto del 1982 dopo aver contattato la Compagnia del Gesù richiedendo di entrare a farne parte. Prima di questa sua decisione c’è stato il diploma di liceo classico e l’aspirazione a diventare prete:

«All’ultimo anno del
liceo, in occasione degli esami di maturità, Michael conosce un
missionario del seminario teologico di San Giuseppe di Bressanone, e
resta così colpito dalla sua figura che decide di seguirne la
strada. Quando comunica ai genitori la volontà di farsi prete e
diventare missionario, la sorpresa non manca, ma i segni premonitori
dii una vocazione religiosa erano già stati avvertiti in famiglia»4.

Parte per Londra e segue il primo anno di noviziato al «Mill Hill» per poi approdare a Roosendal, in cui trascorrerà il secondo anno.

Si rende conto di essere in un’isola dorata e quel mondo, l’Occidente, già non gli basta più: vuole stare a contatto con chi ha davvero bisogno del messaggio di Cristo e della sua potenza rivoluzionaria.
Si rende conto di essere fortemente attratto dalla Teologia della Liberazione e dal comunismo: studia gli scritti di Karl Marx, si interessa di quel che accade in America Latina e di quello che i Gesuiti stanno portando avanti nel Continente.
Nel 1982 è a Cochabamba dopo un viaggio di «147 ore fra autobus e treno»5 ma, anche lì, i vestiti sono stretti, metaforicamente parlando:

«La mia opzione politica è
un’opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se
non una soluzione, per lo meno un compito e una speranza. Per questo
motivo non esiste, nel mondo dei lavoratori, un solo gruppo politico
che non sia in qualche modo marxista […] il marxismo è la via
maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che
costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non
con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale
sistema»6.

Le parole di Michael sono macigni: sta cercando di essere e di porsi come cerniera tra il mondo dell’utopia socialista e quello del cristianesimo agìto, reale, praticato e non clericalizzato in rigide strutture opprimenti.

Seguire l’insegnamento di Cristo significa uscire all’esterno e aprirsi al mondo e non rimanere ancorati alla realtà del noviziato, scrive ancora Michael nell’aprile 1984 da Cochabamba:

«In confronto al “popolo
semplice” viviamo in una casa di lusso. […] Con alcuni colleghi
abbiamo pensato di modificare l’orario delle lezioni, della
preghiera e della celebrazione eucaristica in modo tale da avere la
possibilità di fare qualcosa, di parlare con la gente, di
condividere i suoi problemi. Questa possibilità ci è stata negata.
[…] “È come se io non vivessi in Bolivia, ma in un’isola”,
pensa uno di loro. Dobbiamo imparare ad amare i poveri. Lo chiamiamo
“giocare ad esser poveri”. Al contrario noi non vogliamo giocare,
ma vivere a contatto con i poveri in maniera autentica. E questo
signiffica, in maniera molto semplice, condividere la loro vita. […]
Se dovessimo arrivare alla conclusione che questa nostra strada
nella Compagnia dle Gesù non ci può portare laddove noi vorremmo,
siamo pronti a cercarla altrove»7

A maggio dello stesso anno scriverà al fratello Othwin di aver abbandonato i Gesuiti.

L’animo di Michael è in continuo fermento e ricerca: si iscrive all’Università Mayor “San Andrés” (Umsa) in cui entra in contatto con i gruppi marxisti (trotskysti, marxisti-leninisti ma anche socialisti e socialdemocratici. La Bolivia è un paese che non trova mai quiete, politicamente e socialmente parlando: sono anni difficili e quel che in Italia abbiamo definito “trasformismo” a fine ‘800, nel paese più povero dell’America Latina rappresenta la normalità.

Scriveva il «Manchester Evening News» nel 1960:

«In Bolivia le rivoluzioni
sono quasi [da considerare] uno sport nazionale.
Ce ne sono state 179
negli ultimi 130 anni. Una volta è capitato che ci fossero anche tre
presidenti in uno stesso giorno»8.

Veduta di La Paz dal mirador Killi Killi

 

Certo, sono passati ventiquattro anni da quando Nothdurfter è arrivato in Bolivia, ma la situazione non pare essere cambiata più di tanto: sono gli anni post golpe di Garcia Meza (1980-1981) in cui viene creata una nuova parola per indicare quel governo. Narcodictadura.

Tutti i presidenti, non militari, succeduti all’ultimo golpe, sono riconducibili al Movimento nazionalista rivoluzionario e al Movimento della sinistra rivoluzionaria ma è un chiaro esempio di “socialist sounding”: le alleanze, pur di conservare il potere ottenuto dalle elezioni, fanno convergere interessi molteplici. Interessi rappresentati anche dai partiti di ex militari e apertamente anticomunisti-socialisti e dichiaratamente fascisti.

Strana idea della rivoluzione, strana idea di sinistra.

Nothdurfter guarda, vive tutto questo ed è esterrefatto: il paese langue, la politica sbandiera una rivoluzione che non vuole iniziare (figurarsi se voglia un giorno portarla a compimento!) e i marxisti sono divisi. Bisogna far qualcosa, pensa Michael.

Inizia la sua esperienza con il teatro popolare nelle «borgate proletarie e nelle zone minerarie» mettendo in scena spettacoli che denunciano ingiustizie sociali e lo sfruttamento delle masse. Insieme a quest’attività, si avvicina sempre di più alle idee di Ernesto Che Guevara: c’è bisogno della rivoluzione. Quella vera, però, quella che si fa con le armi.

Nel novembre 1986, in un’altra lettera ad Othwin, dichiarerà la sua intenzione ma in lingua spagnola:

«D’ora in poi ti
scriverò sempre in spagnolo, perché non mi va che la mamma legga le
mie lettere dirette a voi. Non potrebbe capire le mie attitudini
“estremiste”»9.

Non c’è altro tempo da perdere: i poveri sono sempre più poveri, i ricchi vedono accrescere sempre di più il loro patrimonio, la sinistra è divisa, la politica strizza l’occhio ai grandi capitalisti e affama il popolo.

«[…] La sinistra
boliviana sta vivendo una crisi profonda nella quale nessuno si
salva. Per questo motivo bisogna costruire qualcosa di nuovo. […]
Non sarà facile. […] Occorreranno molte ore di discussione, ma
soprattutto molti giorni di silenziosi sacrifici, e semplice
dedizione, molte vite e molti morti, molte lacrime e molto sdegno,
innumerevoli momenti di solitudine politica, di dubbi e debolezza
ideologica
. Io, però, sono deciso – assieme alla mia
organizzazione – per dare tutto ciò che posso dare d me stesso,
poco a poco, accelerando ogni giorno il ritmo»10.

E ancora, l’anno successivo:

«Mi trovo più o meno
d’accordo con quanto sostiene Lenin in Stato e Rivoluzione in
relazione alla necessità di farla finita con lo Stato stesso, che
implica violenza rivoluzionaria. O con quanto dice il Che: “Non
esiste pratica rivoluzionaria senza lotta armata”. Senza dubbio,
però, bisogna contestualizzare. Tatticamente la violenza può essere
controproducente, ma dal punto di vista strategico rappresenta una
necessità imperiosa»11.

Inizia a militare davvero: aderisce prima ad un partito, poi ad un secondo entrambi marxisti, rivoluzionari e nazionalisti ma nessuno di essi ha quel che fa per lui, che ormai è diventato pienamente boliviano e non è più Michael ma Miguel. Abbandona entrambe le organizzazioni e decide di creare un gruppo insieme ad altri fuoriusciti. È la fine del 1988 e l’inizio del 1989. Il Muro di Berlino sta già scricchiolando e l’Unione Sovietica è a un passo dalla fine, ma questo, Miguel, ancora non lo sa né vedrà la fine dello stato sovietico.

Passano gli anni, cruciali, 1986 e 1987, dopodiché è rivoluzione: il clima politico (o, per meglio dire: il caos politico) presente in Bolivia favorisce l’inclinazione e l’opzione – per citare Nothdurfter – per la lotta armata.

«Considero un compito
principale della mia vita contribuire a condurre una vera rivoluzione
in Bolivia e in qualunque altro posto mi tocchi vivere»12.

Il 1989 è l’anno del primo “esproprio proletario” con cui Michael Nothdurfter e il suo gruppo di rivoluzionari, che nel frattempo s’è coagulato attorno a lui.

La prima vera operazione (e anche l’ultima) si chiama operazione Bautizo: si dovrà rapire un pezzo grosso del capitalismo boliviano, uno che ha implicazioni anche con l’economia americana. Il nome ricade su Jorge Lonsdale, presidente di Vascal S.A., azienda concessionaria unica per la distribuzione della Coca-Cola (e bevande del gruppo statunitense) in Bolivia. C’è anche il nome, ora, del gruppo: Comision Nestor Paz Zamora (Cnpz)

 

Il nome scelto non è casuale: Jaime Paz Zamora, presidente boliviano appena eletto, è rappresentante del Movimento della sinistra rivoluzionaria ma per mantenere il controllo dello Stato – e traffici a cui s’è accennato sopra – non ha esitato ad allearsi con i fascisti dell’alleanza nazionalista vicini a Banzer Suarez. Scrive Miguel:

«Nestor è il fratello
dell’attuale Presidente della repubblica ed è morto durante
un’azione di guerriglia a Teoponte. Nestor è l’opposto di Jaime:
il primo era un rivoluzionario e cristiano convinto e come tale si è
comportato sino alla morte. Il secondo si è alleato con l’ex
dittatore Hugo Banzer»13.

Poi arriva davvero il colpo: il sequestro riesce e dura mesi senza che la famiglia dell’industriale sia realmente interessata a riavere Lonsdale. Attorno al sequestro e al suo epilogo ci sono un mucchio di cose che non quadrano e che sia il libro di Paolo Cagnan sia i due docufilm prodotti espongono come criticità attorno al fatto. Tra i fatti che non tornano14 ci sono: Lonsdale presenta dei fori da arma da fuoco che non quadrano con le dichiarazioni della polizia, Miguel venne accusato subito (anche perché straniero, dunque elemento ancor più perturbatore del “semplice” fatto di essere un rivoluzionario15) di aver ucciso l’industriale ma senza una prova concreta, non ci sarebbe stata trattativa tra polizia e sequestratori e le forze dell’ordine hanno sparato subito anche di fronte a uomini che si stavano arrendendo e poi… il volto di Miguel, sfigurato dai proiettili «al punto da rendere impossibile l’identificazione attraverso i tratti somatici». Le autorità boliviane «hanno voluto impedire il nascere di un nuovo mito guerrigliero».

Per quanto possa essere crudo e atroce, è l’epilogo di chi aveva, senza troppi mezzi, dichiarato guerra, spinto dall’idealismo e dall’ardore romantico e rivoluzionario ad un nemico più grande, meglio organizzato e, sebbene rappresentante una “democrazia dalle ginocchia fragili”, sicuramente più strutturato della Cnpz. Nel documentario di Pichler, uno dei sopravvissuti agli arresti (tutti venticinquenni, cristiani e comunisti), chiamato in causa dal regista, dirà che Miguel era il più idealista e che dava a tutti una grande forza d’animo (sebbene negli ultimi tempi si sentisse molto isolato16) ma era anche molto impreparato.

«Lo eravamo tutti [molto impreparati]: era una
cronaca di una morte annunciata
».

Eppure Miguel, in una lettera-testamento ai genitori e alla famiglia, racconta il suo percorso, dalla partenza all’epilogo (senza essere troppo esplicito) ma che restituisce un animo in cerca di giustizia, libertà, equità e solidarietà. Di questo, penso, è bene occuparsi nell’analisi della vita di Nothdurfter e di quanto è accaduto nella vicenda del sequestro Lonsdale: andare alla ricerca, insieme a Miguel, di quanto l’occidente fosse malato allora e di quanto non sia cambiato oggi; di quanto il primo mondo sfrutti, di quanto sia impelagato in una riflessione di giustificazione e autoassoluzione senza la minima autocritica. Non assolvere Miguel per la sua guerra, ma stare dalla parte della sua anima e del suo spirito. Lo spirito di un uomo innamorato della vita a tal punto da voler ingaggiare una lotta senza quartiere contro le ingiustizie che rendono il povero ancor più schiacciato da un capitalismo selvaggio e da una borghesia sfrontata e superba. Talmente innamorato della vita da aver deciso che valesse la pena anche perderla, pur di continuare nella sua lotta.

Tra le strade della regione di Araca

Dalla lettera-testamento, scritta nell’agosto 1990 da Miguel ai suoi genitori:

«[…]

So bene che nessuna delle
persone con cui convivo potrà mai darmi un diploma o un titolo di
studio, ma secondo questa logica Gesù sarebbe diventato un fariseo e
non sarebbe mai stato crocefisso. Io non sono Cristo, ma non intendo
in alcun modo diventare un fariseo, ce ne sono fin troppi.

[…]

Dopo la guerra fredda
arriva la calda “pax capitalista”, la pace che per noi si chiama
“guerra di bassa intensità-alta probabilità”, la pace dei
ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di
meno. Per l’Est e per l’Ovest “libera economia di mercato” e
“stato di diritto”; per il Sud, la guerra e lo scambio di merci,
soverchiante e iniquo: il neoliberismo.

La principale questione è
l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta
dicevano chiaro e tondo: socialismo! Il cosiddetto socialismo reale
è, però, in crisi profonda e ora troppi gioiscono per la presunta
fine del comunismo. In questa logica, però, non dovrebbe più
esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione.

La teologia della
liberazione, invece, esiste e non ha nulla a che fare con
l’Inquisizione. I movimenti di liberazione dell’America Latina
hanno così poco a che vedere con Stalin…

So di non essere stato un
buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di
questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io
faccio ciò che devo fare. Non pretendo che mi comprendiate, ma
dovete capire che io agisco secondo coscienza, e che auguro solo il
meglio a voi e a tutti gli altri. Avrei preferito tacere, ma credo di
esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e
l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche col rischio di
commettere degli errori».

NOTE

1Luca
Bonalumi, Il prete che mirava in alto,
p.10, 2016, Edizioni Gruppo Aeper, Torre de’ Roveri (BG).

2Nelle
medesime pagine don Emilio, a proposito della stretta sorveglianza
delle autorità di polizia nei confronti di don Antonio, accenna
alle vicende del libro di Bonalumi scrivendo:
«[…] al
posto di controllo, i gendarmi notano al volante un certo padre
Antonio, da tempo sotto stretta sorveglianza per le tante vicende
raccontate in questo libro; Riccardo, un volontario italiano ben
conosciuto per i numerosi progetti in atto insieme a uno
sconosciuto».

3Da
una delle lettere scritte da Michael al fratello Othwin contenuta
sia nel libro di Cagnan che nel documentario «Der Pfad des
Kriegers» di Andreas Pichler, 2008

4Paolo
Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.21, 1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

5Avendo
avuto esperienza diretta dei trasporti e delle strade boliviane,
quella di Nothdurfter non è stata un’iperbole.

6Lettera
al fratello Othwin scritta a Cochabamba e datata 31 dicembre 1982.

Paolo Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.2
8,
1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

7Ibidem.

8s.n.,
On the top of the world, 14 ottobre 1960, «Manchester
evening news».

9Paolo
Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.
42,
1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

10Ibidem.

11Ibidem.

12Lettera
all’amico Ludwig Thalheimer del 6 aprile 1988, citata nel volume
di Cagnan.

13Paolo
Cagnan, Il comandante Gonzalo va alla guerra,
p.
80,
1997, erremme edizioni, Pomezia (RM).

14Cagnan
ne elenca sette.

15Nelle
sue ultime lettere si definiva “guerriero”.

16«Sento
profondamente il silenzio dentro di me, la solitudine imposta dal
mio destino [aveva definitivamente rotto con la sua ormai ex
fidanzata], questa congiunzione di fattori e circostanze. Mi sono
scappate alcune lacrime ma non mi arrendo al mio dolore. Il
guerriero non può evitare la sofferenza ma non si lascia mai
sopraffare da essa». 18 agosto 1990.

I bergamaschi in Bolivia. Una chiesa con il popolo [«L’Eco di Bergamo» del 31/10/23]

La seguente intervista è stata pubblicata sull’edizione cartacea de «L’Eco di Bergamo» del 31/10/2023. Felice e onorato di essere stato inserito nella pagina prima del Concilio, ho realizzato quest’intervista a Riccardo (pardon, Don Riccardo) quando io e Maria eravamo da lui in Bolivia.

Da Telgate a La Paz. Un viaggio, quello di Riccardo Giavarini (da poco don), che dura da 47 anni: «Sono qui da così tanto tempo che ormai mi sono innervato nella cultura di qui: non riuscirei a pensare di tornare in Italia”. Questo è quello che si sente di dire quando qualcuno gli chiede se si senta ancora un missionario (nel senso stretto del termine).

Eppure il legame che c’è tra Bergamo (e la sua provincia), La Paz, El Alto e altre località boliviane (Cochabamba, Santa Cruz e via dicendo) è più che evidente: basta andare alla parrocchia di Munaypata. Lì si viene accolti da un altro sacerdote bergamasco (Don Giovanni) e gli occhi occidentali arrivati in terra sudamericana non possono fare a meno di notare il grande murale che campeggia all’ingresso dell’edificio: “60 anni. Chiesa di Bergamo – Iglesia de Munaypata”. Un legame talmente solido che nel 2022 ha compiuto, per l’appunto, il ragguardevole traguardo di sei decenni di cooperazione e collaborazione.

 

«Prima di essere sacerdote sono stato quaranta anni insieme a mia moglie, Berta, morta di Covid due anni e mezzo fa» – ha raccontato Giavarini – «mi sento molto accompagnato da lei, anzi, non posso fare, organizzare e pensare progetti senza pensarla: sento forte la sua presenza e la relazione strettissima con lei»

La vita di Don Riccardo, basti notare il predicato anteposto, è cambiata dal giorno in cui ha deciso di riprendere in mano la vecchia idea del sacerdozio: «Ora ho una parrocchia alla periferia di El Alto, mi sto integrando al clero locale e nel frattempo mantengo gli impegni che già prima caratterizzavano l’agire quotidiano: il carcere minorile “Qalauma”, dunque il tema della giustizia riparativa (insieme all’impegno analogo di Mario Mazzoleni a Santa Cruz); gli impegni legati alla Fundacion “Munacim Kullakita” [di cui ricopre la carica di direttore generale]; l’azione riguardante l’immigrazione di transito in Bolivia (di chi viene dal Venezuela, dalla Colombia, da Haiti per poter raggiungere il Cile o l’Argentina). Così come l’Italia.»

 

L’unione che c’è tra Bergamo e La Paz è piuttosto sui generis e ha inizio nel 1962. Tu che ci vivi da quarantasette anni, potresti spiegarci com’è avvenuto questo sodalizio?

«Succede che durante i lavori del Concilio Vaticano II dei vescovi boliviani si sono recati da Papa Giovanni XXIII e gli hanno rivolto una richiesta esplicita di aiuto a causa dello scarso numero di preti presenti nel paese. Il Papa accoglie questa istanza e coinvolge immediatamente il vescovo di Bergamo, gli gira la richiesta dei vescovi boliviani e da lì è cominciato tutto. Tra i due pionieri bergamaschi c’era Don Berto Nicoli e da allora sono giunti qui più di trecento persone dalla bergamasca tra preti, suore e laici». 

Quali sono stati gli interventi maggiori nella società boliviana in questi decenni?


«Si sono costruiti ospedali, scuole, parrocchie, centri d’accoglienza e centri per l’infanzia per bambini orfani con problemi familiari. Quest’ultima realtà, la “Ciudad del nino” prima era attiva a La Paz e ora s’è spostata nel sud-est del paese, a Cochabamba».

Spesso le missioni – o i progetti conseguenti – vanno sfaldandosi se non c’è ricambio generazionale, in questo caso l’intervento bergamasco è andato sviluppandosi sempre più, come in un costante crescendo, o sbaglio?


«È proprio così: c’è stata fin da subito una sorta di alleanza tra Bergamo e il clero di qui. Le città coinvolte non sono state solamente El Alto e La Paz ma anche Cochabamba e Santa Cruz. Molti preti si sono recati anche in zone rurali e montane fronteggiando molteplici difficoltà ma, da bravi bergamaschi, hanno affrontato le asperità con coraggio e cuore».



Un sodalizio così forte che ha fatto nascere il ‘Gruppo Bergamo’ fin dai primi giorni di presenza nella capitale boliviana, quest’anno sono “sessantuno candeline”.


«Ogni anno, a Pasqua e dopo il 2 novembre, ci incontriamo per un momento di ritiro, di studio della realtà nazionale e non solo. Stiamo parlando di un gruppo di residenti in Bolivia (attualmente circa 40) la cui porzione più folta tempo addietro era quella dei sacerdoti, ora la percentuale di laici è maggiore. Alcuni preti del gruppo sono stati anche eletti vescovi: Angelo Gelmi, Eugenio Scarpellini, Sergio Gualberti (arcivescovo di Santa Cruz), Eugenio Coter e sicuramente ne dimentico molti altri, ma il punto è che queste figure che ho citato hanno contribuito enormemente al rafforzamento dei rapporti tra la diocesi di Bergamo e la chiesa locale. L’altr’anno in occasione dei sessanta anni della presenza bergamasca a La Paz è venuto anche il vescovo Beschi proprio per celebrare questo anniversario».

E tu come ci sei finito qui?


«Sono arrivato qui da laico in alternativa al servizio militare ma comunque legato al “Gruppo Bergamo”, che già esisteva da qualche anno: era il 1976».



Come si è svolta la tua attività in quest’altra parte di mondo?


«Dapprima sono stato a La Paz, poi a Cochabamba, sempre con l’idea di continuare gli studi di teologia, dato che in Italia avevo conseguito la maturità classica in seminario. Dopodiché nella pastorale giovanile ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie: Berta. Da quel momento è cambiato l’orientamento vocazionale».

Certo è che negli anni ’70 e ’80 in Bolivia la situazione socio-politica non era molto stabile…

«Era il periodo delle dittature. C’era molta instabilità sociale, politica ed economica e durante l’ultimo colpo di stato sono riuscito a fuggire alla vigilia del golpe e non sono più potuto rientrare in Bolivia – insieme ad altri – per un periodo di tempo: ero schedato ed eravamo minacciati. Facevamo resistenza al regime dei militari: accoglievamo dirigenti dissidenti e li nascondevamo; facevamo formazione politica ai ragazzi; resistevamo partecipando anche ai movimenti sociali. Personalmente ho anche partecipato a uno sciopero della fame condotto dalle dirigenti minatrici che protestavano contro il generale Banzer Suarez (il cui golpe fu nel 1971) e in poco tempo questo movimento si è esteso in tutto il Paese».


Tu dove ti trovavi in quel periodo?


«Ero a Cochabamba ma subito mi sono attivato per prendere parte a questo movimento sociale molto vasto e diffuso in tutto il paese. E con lo sciopero della fame chiedevamo elezioni libere, il rientro di minatori esiliati, lo ‘stop’ alla repressione per i movimenti sociali, la libertà di associazione e via dicendo».

Il “Gruppo Bergamo” ha preso parte alla vita sociale e politica boliviana a tutti i livelli, non solamente nell’ambito religioso, dunque?


«Assolutamente. C’erano anche preti piuttosto impegnati politicamente in quanto formavano quadri dirigenti dell’Ipsp (‘Instrumento politico por la soberania de los pueblos’) cioè il movimento che ha dato vita al Mas (‘Movimiento al socialismo’), attuale partito di governo. Si impegnavano a proteggere le persone più esposte come alcuni dirigenti sindacali e li nascondevano nelle parrocchie o li facevano scappare in Perù. In quel periodo, poi, andavamo nelle carceri di massima sicurezza a incontrare e parlare con i prigionieri politici e le loro famiglie. Avevamo sviluppato un vero e proprio movimento di resistenza: il Monsignor Manrique (allora arcivescovo di La Paz) si era posto addirittura davanti ai carri armati dei militari per frenare con il suo corpo la violenza e la prepotenza dei militari».

Una chiesa che prende parte, una chiesa totalmente differente dal ruolo che spesso ha interpretato in America Latina nei confronti delle dittature cilene, ad esempio.


«Era una chiesa molto più coraggiosa, oserei dire. Una chiesa che ha pagato di persona, basti ricordare il martirio di Luiz Espinal, così come Alfonso Romero in altri contesti. Ma Espinal, gesuita e giornalista, aveva fondato un giornale che si chiamava ‘Aquì’ in cui denunciava forme di violenza, torture, casi di desaparecidos, chiusura dei mezzi di comunicazione e via dicendo. Durante l’ultimo colpo di stato, ad opera di Garcia Mesa, è stato torturato e brutalmente ucciso. Come lui, altre figure sono state capitali nella resistenza ai militari: i minatori, ad esempio, sono stati la colonna portante delle proteste e hanno rappresentato la punta più avanzata della coscienza civile e di classe sociale contro i vari golpe. Molti sono stati cacciati dalla Bolivia e non hanno più potuto far ritorno nel proprio paese. C’è poi da considerare che l’ex presidente Evo Morales si è formato anche grazie ad occasioni e momenti di formazione promossi dalla chiesa cattolica. Allo stesso modo molti dirigenti del Mas erano catechisti: alcuni hanno fatto bene, altri non troppo, ma “l’uomo è sempre l’uomo”».

Cos’ha lasciato (e cosa sta continuando a costruire) la presenza bergamasca in Bolivia?

«Penso che abbiamo lasciato (e continuiamo a farlo) un’impronta molto importante qui non tanto per le costruzioni o gli edifici eretti, quanto piuttosto riguardo la qualità dell’intervento effettuato. La gente di Bergamo è riuscita ad “inculturarsi” molto nella realtà locale: le parrocchie che venivano gestite da preti bergamaschi non erano solo luoghi di culto in cui si diceva messa e si professava una fede chiusa: erano luoghi aperti. Siamo intervenuti – e interveniamo – nell’ambito sanitario, scolastico e penitenziario, così come la formazione politica delle persone e riguardo l’emancipazione femminile».

Foto storte dalla Bolivia (quelle dritte le ha scattate Maria)

Che viaggio sarebbe senza la mitica Foto storte Production?

Oh, poi se dovesse andarvi di leggere anche qualcosa, trovate tutto cliccando qui: https://sostienepiccinelli.blogspot.com/search/label/Bolivia