Cosa sta succedendo (e cosa succederà) in Bolivia

«L’unico soggetto che può rovesciare il governo è il popolo: la democrazia boliviana può difenderla solo il popolo boliviano», è stato Luis Arce (presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia) a dirlo, a scandirlo nel microfono e nel megafono che gli veniva posto davanti alle labbra, insieme al suo vice David Choquehuanca, dal balcone del Palazzo del Governo (Palacio Quemado) in Piazza Murillo, nel pieno centro di La Paz.

Sono le 17:30 di mercoledì 26 giugno [2024] e il tentato golpe promosso dall’ormai ex capo delle forze armate boliviane Juan José Zúñiga è durato solo tre ore e parrebbe essere già terminato. Zúñiga è stato destituito e il presidente Arce ha nominato un nuovo comandante dell’esercito (il quale ha provveduto immediatamente a liberare la Piazza e a ritirare le truppe), azzerando anche le cariche dei graduati che hanno prestato il fianco all’operazione.

Attorno alle 14:30, la città di La Paz, la Bolivia intera, ha dovuto fronteggiare una situazione che per la storia del paese non è affatto nuova, ma certamente è stata inaspettata in questa circostanza, nonché per Arce e il suo vice Choquehuanca.
Blindati e componenti dell’esercito hanno bloccato i quattro lati di Piazza Murillo e un automezzo armato di mitragliatrice è riuscito ad arrivare a un passo dalla porta d’entrata di Palacio Quemado: dentro probabilmente, come hanno riferito fonti della stampa locale e dell’America Latina, c’erano i due ex, gli unici arrestati al termine della giornata. Ovvero: Juan José Zúñiga e il vice ammiraglio Juan Arnez Salvador.

Aparece un video del tenso encuentro de Luis Arce con los militares golpistas en el Palacio Quemado, Bolivia. pic.twitter.com/U9kGIW1apg

— Sepa Más (@Sepa_mass) June 27, 2024

Zúñiga, per la verità, non parrebbe aver agito senza sapere quel che stava facendo: nei giorni scorsi antecedenti al tentativo di golpe era stato raggiunto dai microfoni della trasmissione No mentiras e, intervistato dalla popolare giornalista Jimena Antelo, rispondeva così: «Gli altri comandanti non erano come me: io non ho paura. Sono un militare e un militare giura sulla Costituzione per difendere la sua patria e il suo popolo». Secondo l’ex capo dell’esercito, lo Stato non era più in grado di mantenere la legalità attraverso la Costituzione, anche a causa del fatto che si stia tacitamente permettendo che l’ex presidente Evo Morales potesse ancora proporsi per un nuovo mandato alle prossime presidenziali: «Quell’uomo – ha dichiarato l’ex graduato a No mentirasnon può più essere Presidente di questo Paese […]. Legalmente non può farlo. La Costituzione dice che non può essere (Presidente) per più di due mandati ed è già stato rieletto tre, quattro volte. Le Forze Armate hanno la missione di far rispettare la Costituzione Politica dello Stato». Una tensione vibrante che a La Paz e Sucre (le due capitali) si respirava già da giorni, evidentemente.

Mentre il tentativo di golpe era in atto, Zúñiga ha continuato a rilasciare interviste alla stampa, in particolare una dichiarazione, ripresa anche da Correo del Sur farebbe riflettere sul senso dell’operazione e darebbe una chiave di lettura dell’azione: «La prenderemo [la Casa Grande del Pueblo]: ripristineremo la democrazia, libereremo i nostri prigionieri politici».
Così come al termine del tentato golpe, e prima di essere portato via dalla forza pubblica, stando al Correo del Sur, Zúñiga avrebbe affermato che la movimentazione di soldati e mezzi blindati sarebbe stata concordata col presidente Arce al fine di aumentarne la popolarità. Affermazioni di cui risponderà l’ex capo militare all’interrogatorio a cui verrà sottoposto.

Il partito di governo, il Mas (Movimento al socialismo), sembrerebbe essere il grande nemico dell’ex capo dell’esercito Zúñiga, sebbene la sua azione si fosse rivolta verso Evo Morales (ne aveva annunciato l’arresto in diretta tv), l’intenzione si rivolgerebbe effettivamente allo Stato a guida del partito di cui fanno parte anche Arce e Choquehuanca.

«Abbiamo vissuto, quel che si direbbe, “un giorno anomalo”», ha raccontato all’AtlanteDon Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundaciòn Munacim Kullakita di El Alto. «Ora si sta vivendo una relativa calma a La Paz: Arce ha pronunciato un discorso volto a rassicurare la popolazione, ha detto che la situazione è rientrata ed è tornata sotto controllo. Certo, di argomenti per contestare il governo ce ne sono, a partire dallagiustizia, se vogliamo fare un solo esempio dato che è uno dei miei campi».
La gente, però, ha risposto: «È scesa in strada sostenendo la democrazia e rigettando il tentato golpe dei militari – ha detto Giavarini – quindi effettivamente la situazione è tornata alla normalità».

Al momento pare di capire che in Bolivia ci sia più una sensazione di stasi, dunque bisognerà capire quale sarà la normalità a cui giungerà il paese.

«No hay plata!»

La situazione in Bolivia non è propriamente rosea. David Choquehuanca, vicepresidente dello stato Plurinazionale, in più di un’occasione nel corso del suo mandato ha ripetuto – pur senza fare nomi esplicitamente – che alcuni esponenti politici avrebbero rifiutato di approvare i crediti di cui vanta lo Stato. Sulle reti sociali dell’America Latina è diventato virale il primo video in cui Choquehuanca, durante un’iniziativa del suo partito, si è lasciato andare ad un commento quasi liberatorio, tanto era il peso specifico di quelle parole: «Stiamo in una situazione difficile: non ci sono soldi! (no hay plata!)». Un’eco di quella stessa espressione pronunciata durante il primo discorso da presidente dell’Argentina di Javier Milei: «No hay plata», scandendo ogni singola parola.

Difficile, ad ogni modo, dare torto a Choquehuanca, al netto dei soldi che devono tornare allo Stato e che non starebbero prendendo la via di Palacio Quemado: 1 boliviano attualmente vale 0,13 centesimi di Euro, viceversa per un Euro ci vogliono 7 bolivianos e 70 centavos. Lo stipendio medio di un meccanico si aggira attorno ai 500 bolivianos, poco più di 60€. Da mesi perdura, poi, una situazione di instabilità legata alle riserve di carburante e l’evento di ieri ha scatenato una ancor maggiore irrazionalità da parte dei consumatori e dei trasportatori, tanto che l’Agenzia nazionale idrocarburi (Anh) ha dovuto emettere un comunicato in cui si invita alla calma e assicura come la «fornitura di combustibili» sia «garantita in tutto il paese». Si può ancora comprare carburante, dice l’autorità, ed è anche garantita la vendita ma le lunghe code di camion al confine con l’Argentina che durano da settimane suggerirebbero l’esatto contrario. Eppure, nonostante la situazione di crisi politica e di difficoltà economica, la Bolivia continua ad essere vista come meta d’emigrazione per persone provenienti da Haiti e dal Venezuela.

 

 
L’eredità di Evo: i «due Mas»

Ma perché Zúñiga ce l’aveva con Morales, al punto di dichiarare di volerlo arrestare, per la faccenda della candidatura alle presidenziali?
Tutto è cominciato più di un anno fa, quando l’ex presidente boliviano Evo Morales ha annunciato di volersi candidare nuovamente alle presidenziali del 2025.
Una data cruciale per la Bolivia: è l’anno in cui si celebra il Bicentenario.
Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato ed ora esistono due parti del Mas (una evista e l’altra arcista) che sono letteralmente l’una contro l’altra.
Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto.
Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell’Ibce (l’Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l’economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso.
Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo di quest’anno (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l’amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede.
Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al Mas tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas (uno arcista l’altro evista).
I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.

 

 
«Autogolpe!» 
Eppure, dopo tutto quello che è successo, le organizzazioni di Cochabamba vicine alla Seis federaciones e fedeli a Morales, hanno serenamente parlato di autogolpe. L’esecutivo della Seis ha parlato esplicitamente di «pagliacciata». Elena Almendras, dirigente della Federazione delle Comunità Interculturali di Chimoré (Cochabamba), ha dichiarato che il tentativo di golpe è stato uno «spettacolo mediatico preparato mesi fa dal Governo» con l’obiettivo di aumentarne la popolarità.
La stessa Almendras, insieme alle organizzazioni sociali del Tropico, ha aggiunto: «poiché l’“autogolpe” non è andato come previsto, cercheranno di arrestare l’ex presidente Evo Morales».
Ancora una volta le realtà sociali, civili e associative vicine all’ex leader del Mas ingaggiano lo scontro frontale con l’altra fazione del partito, citando anche (e soprattutto, verrebbe da dire) la questione del golpe che sarebbe stato programmato. Tesi confermata anche nel corso della conferenza stampa del dipartimento di La Paz del Mas (evista): «Il Presidente e il suo Vice stanno generando paura nel popolo boliviano. Quello che è accaduto ieri [26 giugno] è stato chiaramente pianificato dalgoverno: un autogolpe».
Non si arriverà all’arresto di Morales, come ha dichiarato Almendras, ma certamente l’eredità di Evo è pesante, tanto quanto quel blindato che è andato a “bussare la porta” di Palacio Quemado. Un peso specifico, quello di Morales, con cui non solo il Mas, ma anche la società boliviana tutta dovrà fare i conti. E se una gran folla di gente è scesa in piazza sostenendo la democrazia e il presidente Arce nel momento di maggior tensione nel pomeriggio di ieri, è altrettanto vero che attorno ad esse si stava iniziando a radunare una piccola (ma rumorosa) folla di evisti in cui veniva scandito: «Esto no fue golpe, esto fue teatro [non è stato un golpe, è stato un teatro]».
La società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che è impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua.
Certo è che oggi si è giunti ad un punto da cui difficilmente si riuscirà a tornare indietro serenamente.

I bergamaschi in Bolivia. Una chiesa con il popolo [«L’Eco di Bergamo» del 31/10/23]

La seguente intervista è stata pubblicata sull’edizione cartacea de «L’Eco di Bergamo» del 31/10/2023. Felice e onorato di essere stato inserito nella pagina prima del Concilio, ho realizzato quest’intervista a Riccardo (pardon, Don Riccardo) quando io e Maria eravamo da lui in Bolivia.

Da Telgate a La Paz. Un viaggio, quello di Riccardo Giavarini (da poco don), che dura da 47 anni: «Sono qui da così tanto tempo che ormai mi sono innervato nella cultura di qui: non riuscirei a pensare di tornare in Italia”. Questo è quello che si sente di dire quando qualcuno gli chiede se si senta ancora un missionario (nel senso stretto del termine).

Eppure il legame che c’è tra Bergamo (e la sua provincia), La Paz, El Alto e altre località boliviane (Cochabamba, Santa Cruz e via dicendo) è più che evidente: basta andare alla parrocchia di Munaypata. Lì si viene accolti da un altro sacerdote bergamasco (Don Giovanni) e gli occhi occidentali arrivati in terra sudamericana non possono fare a meno di notare il grande murale che campeggia all’ingresso dell’edificio: “60 anni. Chiesa di Bergamo – Iglesia de Munaypata”. Un legame talmente solido che nel 2022 ha compiuto, per l’appunto, il ragguardevole traguardo di sei decenni di cooperazione e collaborazione.

 

«Prima di essere sacerdote sono stato quaranta anni insieme a mia moglie, Berta, morta di Covid due anni e mezzo fa» – ha raccontato Giavarini – «mi sento molto accompagnato da lei, anzi, non posso fare, organizzare e pensare progetti senza pensarla: sento forte la sua presenza e la relazione strettissima con lei»

La vita di Don Riccardo, basti notare il predicato anteposto, è cambiata dal giorno in cui ha deciso di riprendere in mano la vecchia idea del sacerdozio: «Ora ho una parrocchia alla periferia di El Alto, mi sto integrando al clero locale e nel frattempo mantengo gli impegni che già prima caratterizzavano l’agire quotidiano: il carcere minorile “Qalauma”, dunque il tema della giustizia riparativa (insieme all’impegno analogo di Mario Mazzoleni a Santa Cruz); gli impegni legati alla Fundacion “Munacim Kullakita” [di cui ricopre la carica di direttore generale]; l’azione riguardante l’immigrazione di transito in Bolivia (di chi viene dal Venezuela, dalla Colombia, da Haiti per poter raggiungere il Cile o l’Argentina). Così come l’Italia.»

 

L’unione che c’è tra Bergamo e La Paz è piuttosto sui generis e ha inizio nel 1962. Tu che ci vivi da quarantasette anni, potresti spiegarci com’è avvenuto questo sodalizio?

«Succede che durante i lavori del Concilio Vaticano II dei vescovi boliviani si sono recati da Papa Giovanni XXIII e gli hanno rivolto una richiesta esplicita di aiuto a causa dello scarso numero di preti presenti nel paese. Il Papa accoglie questa istanza e coinvolge immediatamente il vescovo di Bergamo, gli gira la richiesta dei vescovi boliviani e da lì è cominciato tutto. Tra i due pionieri bergamaschi c’era Don Berto Nicoli e da allora sono giunti qui più di trecento persone dalla bergamasca tra preti, suore e laici». 

Quali sono stati gli interventi maggiori nella società boliviana in questi decenni?


«Si sono costruiti ospedali, scuole, parrocchie, centri d’accoglienza e centri per l’infanzia per bambini orfani con problemi familiari. Quest’ultima realtà, la “Ciudad del nino” prima era attiva a La Paz e ora s’è spostata nel sud-est del paese, a Cochabamba».

Spesso le missioni – o i progetti conseguenti – vanno sfaldandosi se non c’è ricambio generazionale, in questo caso l’intervento bergamasco è andato sviluppandosi sempre più, come in un costante crescendo, o sbaglio?


«È proprio così: c’è stata fin da subito una sorta di alleanza tra Bergamo e il clero di qui. Le città coinvolte non sono state solamente El Alto e La Paz ma anche Cochabamba e Santa Cruz. Molti preti si sono recati anche in zone rurali e montane fronteggiando molteplici difficoltà ma, da bravi bergamaschi, hanno affrontato le asperità con coraggio e cuore».



Un sodalizio così forte che ha fatto nascere il ‘Gruppo Bergamo’ fin dai primi giorni di presenza nella capitale boliviana, quest’anno sono “sessantuno candeline”.


«Ogni anno, a Pasqua e dopo il 2 novembre, ci incontriamo per un momento di ritiro, di studio della realtà nazionale e non solo. Stiamo parlando di un gruppo di residenti in Bolivia (attualmente circa 40) la cui porzione più folta tempo addietro era quella dei sacerdoti, ora la percentuale di laici è maggiore. Alcuni preti del gruppo sono stati anche eletti vescovi: Angelo Gelmi, Eugenio Scarpellini, Sergio Gualberti (arcivescovo di Santa Cruz), Eugenio Coter e sicuramente ne dimentico molti altri, ma il punto è che queste figure che ho citato hanno contribuito enormemente al rafforzamento dei rapporti tra la diocesi di Bergamo e la chiesa locale. L’altr’anno in occasione dei sessanta anni della presenza bergamasca a La Paz è venuto anche il vescovo Beschi proprio per celebrare questo anniversario».

E tu come ci sei finito qui?


«Sono arrivato qui da laico in alternativa al servizio militare ma comunque legato al “Gruppo Bergamo”, che già esisteva da qualche anno: era il 1976».



Come si è svolta la tua attività in quest’altra parte di mondo?


«Dapprima sono stato a La Paz, poi a Cochabamba, sempre con l’idea di continuare gli studi di teologia, dato che in Italia avevo conseguito la maturità classica in seminario. Dopodiché nella pastorale giovanile ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie: Berta. Da quel momento è cambiato l’orientamento vocazionale».

Certo è che negli anni ’70 e ’80 in Bolivia la situazione socio-politica non era molto stabile…

«Era il periodo delle dittature. C’era molta instabilità sociale, politica ed economica e durante l’ultimo colpo di stato sono riuscito a fuggire alla vigilia del golpe e non sono più potuto rientrare in Bolivia – insieme ad altri – per un periodo di tempo: ero schedato ed eravamo minacciati. Facevamo resistenza al regime dei militari: accoglievamo dirigenti dissidenti e li nascondevamo; facevamo formazione politica ai ragazzi; resistevamo partecipando anche ai movimenti sociali. Personalmente ho anche partecipato a uno sciopero della fame condotto dalle dirigenti minatrici che protestavano contro il generale Banzer Suarez (il cui golpe fu nel 1971) e in poco tempo questo movimento si è esteso in tutto il Paese».


Tu dove ti trovavi in quel periodo?


«Ero a Cochabamba ma subito mi sono attivato per prendere parte a questo movimento sociale molto vasto e diffuso in tutto il paese. E con lo sciopero della fame chiedevamo elezioni libere, il rientro di minatori esiliati, lo ‘stop’ alla repressione per i movimenti sociali, la libertà di associazione e via dicendo».

Il “Gruppo Bergamo” ha preso parte alla vita sociale e politica boliviana a tutti i livelli, non solamente nell’ambito religioso, dunque?


«Assolutamente. C’erano anche preti piuttosto impegnati politicamente in quanto formavano quadri dirigenti dell’Ipsp (‘Instrumento politico por la soberania de los pueblos’) cioè il movimento che ha dato vita al Mas (‘Movimiento al socialismo’), attuale partito di governo. Si impegnavano a proteggere le persone più esposte come alcuni dirigenti sindacali e li nascondevano nelle parrocchie o li facevano scappare in Perù. In quel periodo, poi, andavamo nelle carceri di massima sicurezza a incontrare e parlare con i prigionieri politici e le loro famiglie. Avevamo sviluppato un vero e proprio movimento di resistenza: il Monsignor Manrique (allora arcivescovo di La Paz) si era posto addirittura davanti ai carri armati dei militari per frenare con il suo corpo la violenza e la prepotenza dei militari».

Una chiesa che prende parte, una chiesa totalmente differente dal ruolo che spesso ha interpretato in America Latina nei confronti delle dittature cilene, ad esempio.


«Era una chiesa molto più coraggiosa, oserei dire. Una chiesa che ha pagato di persona, basti ricordare il martirio di Luiz Espinal, così come Alfonso Romero in altri contesti. Ma Espinal, gesuita e giornalista, aveva fondato un giornale che si chiamava ‘Aquì’ in cui denunciava forme di violenza, torture, casi di desaparecidos, chiusura dei mezzi di comunicazione e via dicendo. Durante l’ultimo colpo di stato, ad opera di Garcia Mesa, è stato torturato e brutalmente ucciso. Come lui, altre figure sono state capitali nella resistenza ai militari: i minatori, ad esempio, sono stati la colonna portante delle proteste e hanno rappresentato la punta più avanzata della coscienza civile e di classe sociale contro i vari golpe. Molti sono stati cacciati dalla Bolivia e non hanno più potuto far ritorno nel proprio paese. C’è poi da considerare che l’ex presidente Evo Morales si è formato anche grazie ad occasioni e momenti di formazione promossi dalla chiesa cattolica. Allo stesso modo molti dirigenti del Mas erano catechisti: alcuni hanno fatto bene, altri non troppo, ma “l’uomo è sempre l’uomo”».

Cos’ha lasciato (e cosa sta continuando a costruire) la presenza bergamasca in Bolivia?

«Penso che abbiamo lasciato (e continuiamo a farlo) un’impronta molto importante qui non tanto per le costruzioni o gli edifici eretti, quanto piuttosto riguardo la qualità dell’intervento effettuato. La gente di Bergamo è riuscita ad “inculturarsi” molto nella realtà locale: le parrocchie che venivano gestite da preti bergamaschi non erano solo luoghi di culto in cui si diceva messa e si professava una fede chiusa: erano luoghi aperti. Siamo intervenuti – e interveniamo – nell’ambito sanitario, scolastico e penitenziario, così come la formazione politica delle persone e riguardo l’emancipazione femminile».

Corruzione e sospensioni ai campionati professionistici: la lunga notte del calcio in Bolivia

Nel complesso sportivo “Camoco Chico”, nella zona del Macrodistrito Maximiliano Paredes, le attività legate allo sport di base si susseguono incessanti. Ad ogni ora del giorno è possibile vedere le squadre di calcio femminile che si allenano, i bambini (coi loro cappelli per proteggersi dal sole ustionante che batte a 3600 metri d’altezza) che si dispongono in campo secondo le indicazioni dei loro allenatori, atlete e atleti nelle piste poste al lato della struttura. Capita anche di vedere qualche partita ufficiale del variegato mondo dilettantistico-amatoriale di La Paz: oltre alle attività che in Italia verrebbero considerate “di base” (scuola calcio e campionati conseguenti per adolescenti a diversi livelli di capillarità territoriale) si tengono anche le leghe seniores, ovvero per chi ha compiuto dai 37 anni in su. Insomma: calcisticamente parlando tutto sembra scorrere in quella che è a tutti gli effetti una tranquilla, fresca e assolata giornata di metà settembre.

Il punto è, sempre calcisticamente parlando, che la Bolivia ha evidentemente vissuto tempi migliori per quel che riguarda il mondo del professionismo legato al calcio a 11 maschile. Da metà agosto tutti i campionati professionistici, compresa la Liga (cioè la massima serie) sono stati interrotti: stop totale. Un mese nefasto per il calcio boliviano che già da tempo languiva e non godeva di buona salute a causa di dichiarazioni incrociate tra presidenti ed esponenti di primo piano delle federazioni calcistiche di calciatori e dell’organizzazione generale.

La punta dell’iceberg è stata rivelata il 30 agosto [2023] quando il presidente della Federazione boliviana di calcio, Fernando Costa, ha convocato una conferenza stampa denunciandoma senza fare nomiuna ramificazione piuttosto articolata di corruttela alla base del calcio boliviano. Stando al quotidiano del vicino Perù «La Repùblica» il presidente Costa ha denunciato «tangenti e partite truccate» dietro cui si nasconderebbe «una rete di corruzione composta da dirigenti, ex dirigenti, calciatori e arbitri». In Europa «El Paìs» ha parlato apertamente di «terremoto nel calcio boliviano», a proposito della conferenza della Federazione calcistica tenutasi nella città di Santa Cruz. Ma come ogni avvenimento imponente, le cause sono da ricercare prima del fatto accaduto.
Un altro passo indietro è necessario. 

Partite truccate: la piovra e la cupola

Il primo a dichiarare pubblicamente un fatto simile è stato l’ex presidente boliviano Evo Morales Ayma, ora presidente del Palmaflor (modesta squadra di bassa classifica) che rappresenta un mondo piuttosto influente in Bolivia: i cocaleros. A fine 2022 Morales diventa presidente della squadra di Cochabamba e da quel giorno detiene la doppia carica di presidente del sindacato dei cocaleros (cioè i coltivatori di coca) e della squadra di calcio la cui proprietà è riconducibile all’organizzazione di cui sopra. Il 30 agosto Federico Molina su «El Paìs» scriveva: «Morales, per conto del Palmaflor, aveva dichiarato che la sconfitta di Coppa [contro il Blooming] si sarebbe verificata a causa del “gioco al ribasso” di alcuni giocatori» prima del fischio d’inizio. Parrebbe un’accusa di combine. Molina ha ricordato che queste parole sono state pronunciate dall’ex presidente boliviano nell’ambito delle interlocuzioni tra la federazione calcistica boliviana e l’organizzazione sindacale di cui Morales è presidente riguardo la mancata erogazione degli stipendi ai giocatori del Palmaflor. Accusa e fuoco incrociato. Un litigio, quello tra Palmaflor e Blooming, che non ha mai smesso di cessare: nel marzo di quest’anno le due compagini si sono rese protagoniste della prima partita al mondo durata per tre tempi anziché due, con la terna arbitrale che ha concesso 42 minuti e 11 secondi di recupero. «Niente giustifica il recupero così imponente» commentava «Espn», portale digitale sportivo panamense il giorno successivo della partita: il Blooming stava conducendo la gara ma tra VAR, discussioni tra giocatori, sostituzioni che sarebbero durate un tempo molto più lungo del normale, si è arrivati a disputare tre tempi. Tra pozzanghere e pioggia incessante, decisioni dubbie e tensione alle stelle, la terna arbitrale (tutti paceños) è stata successivamente sospesa. Stessa sorte è toccata al personale addetto al Var (della federazione di Cochabamba). A tal proposito, Morales si è sentito in obbligo di rivelare che qualcosa non stava andando per il verso giusto, o che comunque avrebbe dovuto funzionare diversamente. I quotidiani boliviani allora avrebbero parlato di “presunta mafia”, un termine che riesce ad essere universale anche a distanze siderali dall’Italia. Che Morales abbia messo semplicemente le mani avanti? Non ci è dato saperlo. Almeno non ora. Secondo il quotidiano digitale «la Opiniòn»: «A metà agosto, il presidente del Club Palmaflor del Trópico [Morales] ha affermato pubblicamente che “ci sono giocatori che si accordano per truccare le partite”», il riferimento è al confronto di coppa col Blooming. E ancora si legge: «“Ho delle informazioni, purtroppo non tutti i calciatori sono corretti. Ci sono alcuni che negoziano sottobanco”».

Poi, il proverbiale patatrac.
La Federazione sindacale dei calciatori professionisti boliviani (Fabol), proprio nei giorni di massima tensione di fine agosto, ha respinto la dichiarazione in un comunicato ufficiale, ha chiesto a Morales di provare concretamente le affermazioni esternate, si è dissociata dalle parole dell’ex presidente ma ormai si era sul piano inclinato in cui la biglia può solo schizzare verso il basso.
Fernando Costa ha dato l’annuncio della sospensione del campionato: provvedimento sostenuto con 14 voti favorevoli, 1 astenuto e 2 contrari tra i club partecipanti alla massima serie [17]. Tutto annullato: coppa e campionato di clausura. La classifica congela The Strongest prima, Nacional Potosì al secondo posto, Bolivar al terzo e Always Ready di El Alto al quarto.

«Un paio di anni fa pensavamo di aver toccato il fondo», recita il comunicato di Erwin Romero, presidente della Fabol, «pensavamo di non poter andare peggio e invece nulla è impossibile e ora siamo molto peggio di prima. È di dominio pubblico che il narcotraffico ha trafitto il nostro calcio e la stessa federazione ha denunciato l’esistenza di possibili reti di scommesse illegali e partite truccate». Possibili, ma ancora non certe. Si attendono, ora, i verdetti della Fifa, interpellata dal presidente Costa, e della Conmebol per sapere se e quando il campionato possa riprendere e in che condizioni.

Riecheggiano i fatti del novembre 2018 nelle parole di Romero. In quella circostanza la federazione chiese aiuto alla Fifa per sanare una situazione emersa direttamente in campo: Pedro Chàvez, calciatore paraguaiano allora in forza al Guabirá, disse ad un rivale come tutti sapessero che le scommesse erano affare del Real Potosì. Le dichiarazioni fecero il giro di tutto il mondo, finirono anche su «El Paìs»: «[i giocatori] Non vengono pagati da quattro o cinque mesi e rischiano la vita nelle riunioni». Chavez ritrattò, il Potosì non ammise nulla e anzi rigettò le accuse.

¡Vergonzoso!

Già Carlo Emilio Gadda nel “Pasticciaccio” descriveva che una catastrofe non è mai «la conseguenza o l’effetto d’un unico motivo, d’una causa al singolare». La verità è che una catastrofe porta con sé «come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti». Vien da sé, alla luce di quanto letto, che lo scandalo più imponente dell’ultimo decennio che ha investito il calcio boliviano non poteva arrivare in un momento peggiore: il 14 settembre la verde doveva disputare una partita importantissima valida per le Qualificazioni mondiali allo stadio “Siles” di La Paz contro i campioni del mondo dell’Argentina. La partita finisce 0-3 per l’albiceleste (senza Messi) e nemmeno l’altitudine (lo stadio è a 3.600 metri d’altezza) ha giocato a favore della rappresentativa boliviana. Débâcle su tutta la linea. Durissimo il giornale «El diario» il giorno dopo la pesante sconfitta: «la selezione boliviana è la peggiore delle Qualificazioni sudamericane per il Mondiale del 2026. In due partite un solo gol fatto e ben otto subiti. Gli errori dei giocatori durante la partita sono stati una costante di una squadra disordinata, improduttiva e senza la minima attitudine alla motivazione. A tutto questo si aggiunga il poco criterio dell’allenatore che non ha pianificato correttamente la partita». L’ultima volta che la nazionale della Bolivia ha partecipato ad un torneo internazionale è stato nel 1994, da allora sembra non avere fine la lunga notte che tormenta il calcio boliviano.

Destinazione minibus – [cose strane della Bolivia #2]

Piccolo post senza pretese (e del tutto non esaustivo) sul confuso sistema di  trasporto su gomma pubblico/privato presente a El Alto e a La Paz.

 
Nel mese trascorso in Bolivia ho avuto un passatempo del tutto peculiare, tipicamente nicchista. Mi sono appuntato tutte le marche cinesi di automobili, minibus, van, camion e mezzi di trasporto in generale che ho notato.
 
Se si dovesse leggere l’elenco ne verrebbe fuori un meraviglioso kaleidoscopio di suoni terminanti con la n come nelle peggiori barzellette, crogiolo di luoghi comuni.
Changan, Jin Bei, Keyton, King Long, Yuejin, Foton, Golden Dragon, Haval sono solo alcuni nomi attraverso cui si impernia il sistema di trasporto di El Alto e di La Paz, maggiormente. Che poi i minibus si trovino anche a trecento chilometri di distanza dalla capitale e siano King Long anche lì, sembra un’ovvietà, dunque è bene sorvolare su questo aspetto. Cosa sono i minibus? C’è chi li chiama colectivos, un termine che farebbe comprendere meglio la natura peculiare di questo trasporto che è privato ma pubblico

Trasporto pubblico?
Esiste e costa anche poco. Si tratta di un trasporto su gomma, di linee di autobus come siamo abituati a vederli nelle città in Italia: sono i Pumakatari. Autobus imponenti di colore arancione e chiamati così perché vi hanno raffigurato un puma stilizzato sui fianchi e fanno parte del progetto governativo che prevede il collegamento tra la città e le parti più remote della valle su cui si adagia la capitale boliviana (“La Paz bus”). «”La Paz Bus” è il sistema integrato di trasporto del Comune di La Paz» ha l’obiettivo di: «fornire un trasporto sicuro, affidabile e amichevole a tutta la popolazione della nostra città lungo i nostri percorsi». Il viaggio da La Paz al punto più lontano collegato costa 2 boliviani e
30 centavos, cioè 0,31 centesimi di euro. Non sto neanche a dire che la
flotta dei Pumakatari è totalmente King Long. Se ti abboni, però, i
viaggi costano 80 centavos, cioè 0,11 centesimi di euro. Alla faccia dei
rincari in occidente.
La pubblicità del Pumakatari si premura di sottolineare l’espressione “viaggio amichevole”. Un aggettivo da non sottovalutare. Le tre regole per la guida e la sopravvivenza pedonale in Bolivia – codificate seduta stante replicando quelle che ci hanno detto i nostri primi angeli custodi del nostro viaggio, cioè Sirio e Martina – sono poche e semplici: i semafori sono consigli, non esistono segnali stradali (men che meno strisce pedonali), i minibus fanno quello che vogliono. 

Ma torniamo a noi. I minibus.
In sostanza sono dei van guidati da un autista privato che possono contenere fino a 15 persone. Gli itinerari dei minibus cambiano a seconda della tratta che il chofèr (l’autista) decide di intraprendere quel giorno: cambiano anche nel corso della stessa giornata, pur mantenendo alcuni punti fissi. Un itinerario mobile qual piuma al vento o a seconda della volontà dell’autista, tacitamente e insindacabilmente. Le destinazioni sono indicate con dei cartelli (rigorosamente “amovibili”) affissi sul vetro della vettura: indicano quali punti di interesse saranno toccati. Ma dimenticatevi le fermate: l’importante è che al punto in cui si voglia scendere uno urli una cosa tipo «A la esquina por favor!» (cioè: «all’incrocio, per favore») e l’autista si fermerà. Per la chiamata la cosa è analoga: basta alzare un braccio e il minibus, se ha posto, si fermerà. Il passaggio costa dal boliviano e mezzo ai due boliviani, ovvero da 0,20 centesimi a 0,27 centesimi di euro. Se sei bianco, se sei gringo, tuttavia, capita che la tratta la paghi 2 boliviani anziché 1,50. 

L’ultimo che sale, chiude la porta (scorrevole). Come la cholita in foto ad inizio del post.
Poi ci sono gli urlatori, quelli che si guadagnano un boliviano a gridare a bordo della strada quando vedono dei minibus fermi al semaforo oppure in attesa che il mezzo si riempia davvero. A volte salgono anche sul mezzo semivuoto e, prima che un flusso più o meno copioso di persone riesca a salire sul pulmino, trascorrono a passo d’uomo alcune centinaia di metri urlando tutte le zone toccate dal van.

Tipico urlatore a bordo di un minibus

Tutti i choferes sono sindacalizzati, chi più chi meno, in un dedalo di organizzazioni, molte più di quelle che possono immaginare le circonvoluzioni cerebrali di uno avvezzo alle divisioni della sinistra comunista italiana. Certo è che quando gli autisti si organizzano per uno sciopero e per un blocco, i collegamenti tra El Alto e La Paz si interrompono completamente. Le divisioni, in questo caso, o contano poco o tantissimo: c’è chi si unisce ai blocchi anche se non è dei sindacati che stanno scioperando, c’è chi viene preso a sassate sul parabrezza (letteralmente) qualora non si unisca alla lotta. I blocchi sono letterali: i minibus si mettono di traverso nelle poche strade che collegano le due città, formano un po’ di barricate rudimentali ulteriori e il gioco è fatto. Non passa nessuno. 
Nella nostra prima settimana, in cui si stava paventando un aumento del pedaggio dell’autostrada che collega La Paz a El Alto da 2 boliviani a 2 e 50 centavos, il blocco ha costituito un problema non indifferente. Certo, c’era il teleferico, ma nessun mezzo su gomma trasportava dal un punto x (capolinea del teleferico) all’altro y. I Pumakatari a El Alto semplicemente non esistono.

E poi ci sono tutti gli altri mezzi di trasporto. Ci sono i taxi (ma quelli sono universali) con l’eccezione del trufi, cioè una sorta di taxi collettivo che trasporta fino a cinque persone. E poi ancora i Micro T: stesso principio dei minibus ma con automezzi degli anni ’50 del Novecento, ancora perfettamente utilizzati. «Quando sono arrivato qui attorno al ’76 – ci dice Riccardo Giavarini – i mezzi di trasporto erano questi… e ci sono ancora!», indicando un tanto datato quanto imponente Micro T (l’ossimoro è tutto voluto) marca Dodge. Scorrono lenti e motoristicamente murmureggianti  nel frenetico, inquinato e caotico traffico paceño e alteño. Si difendono col prezzo: 1 boliviano e 50 centavos per ogni passaggio, nessun aumento, nessun rincaro. Si sta un po’ stretti, ma si arriva a destinazione.

(Le foto, a parte quelle sul Micro T, sono state scattate dall’autorevole componente valserianina della fraternità di Cairoma2023, ovvero Letizia).

La prima di «El Diario» a bordo del Micro T  sulla salita per Munaypata il giorno dopo la pesante sconfitta (0-3) subita dalla Bolivia contro la nazionale Argentina.

La Paz (prima parte)

21 Agosto, ore 10:00. Ora locale, ovviamente. Sei ore in meno rispetto all’Italia. A La Paz, ma come in tutto il Sud America, è inverno. Siamo partiti da Roma con 30 gradi e siamo arrivati a El Alto, all’aeroporto internazionale di La Paz, con la metà dei gradi. L’aereo della compagnia di Stato “Boliviana de aviaciòn” (Boa) era un incrocio tra un EasyJet e un Ryanair di una decina di anni fa, probabilmente ne avrà avuti una ventina ma ci ha portati sani e salvi da Santa Cruz a La Paz. Arrivare in Bolivia non è semplicissimo: da Roma bisogna fare tappa a Madrid, da Madrid prendere un volo per Santa Cruz per arrivare a El Alto. 

Volo cancellato
Una volta approdati a Madrid ci arriva una bella (si fa per dire) mail in cui ci viene annunciata la cancellazione del volo della compagnia Amaszonas che ci avrebbe portato da Santa Cruz a La Paz. Andiamo a chiedere aiuto al personale di terra di Air Europa e ci dicono che sicuramente una volta arrivati lì ci avrebbero fornito una soluzione: “Avreste anche diritto ad un rimborso del biglietto, bueno, certamente con le leggi europee, con quelle di lì….”. A questo punto la dipendente di AirEuropa muove le sopracciglia, come un arciere tende l’arco, alza le spalle. Molto poco incoraggiante ma c’era da affidarsi, in poche parole. La soluzione è arrivata con la Boliviana de Aviacion nonostante nel volo da Madrid a Santa Cruz abbiamo incontrato un signore spagnolo-boliviano che ci ha “tranquillizzato” moltissimo: “No, Boa es peòr, mucho peòr de Amaszonas”. La mia paura dell’aereo, carsica durante il volo, è diventata di proporzioni oceaniche – letteralmente – dopo aver sentito le rassicurazioni di Javier. 

Falta de oxigeno
Cioè “mancanza di ossigeno”. Slacci la cintura, ti incammini verso la porta d’uscita e ti senti molto pesante. Mettere un piede davanti all’altro, proverbialmente parlando, non è facile e bisogna darsi tempo, come in questi primi giorni: uscire per fare il giro di qualche quadras (isolati) è già tanto, fare le scale di buon passo implica una ricerca costante di ossigeno una volta terminate. Il mal di testa è stato costante i primi due giorni e il secondo ancor più intenso del precedente: gli occhi uscivano fuori dalle orbite e le tempie pulsavano come se avessi assistito ad un ipotetico concerto di 72 ore dei Sepultura. 

El Alto
Tecnicamente, la città di El Alto rappresenta una realtà a sé, autonoma rispetto a La Paz. Nata come agglomerato spontaneo di case, spesso non troppo ben costruite, è diventata una città enorme con tutti i problemi che questo sviluppo spontaneo ha rappresentato nel corso degli anni. Una città di un milione e più di abitanti nata come le borgate romane extra Raccordo Anulare: una borgata Finocchio enorme che si estende così grandemente da non riuscire a vederne la fine. Se La Paz è la ciudad del cielo perché è situata a 3.500 metri, El Alto (4.100 metri) guarda (sovrastandola) tutta la valle su cui sono distesi i quartieri della capitale politica boliviana. Lo sviluppo totalmente diseguale di El Alto ha fatto sì che la città abbia più centri e più periferie al contempo: Avenida Boliva, per fare un esempio, è una delle vie principali di El Alto ma tuttavia non è la unica avenida principale. Le case sono cresciute e crescono, tutt’ora, caoticamente, in modo disordinato e senza una reale pianificazione: tutto è lasciato ad una iniziativa privata totalmente arbitraria e soggettiva. Costruzioni mezzo terminate sono abitate ai piani bassi mentre operai zelanti – in spregio dell’altura, ma questa è un’osservazione tutta occidentale – costruiscono gli altri piani, tetti di lamiera temporanei diventano “a tempo indeterminato” e i servizi di base non sempre sono assicurati. L’industria più fiorente – si fa per dire – è quella dei mattoni (la mente corre subito a Calzinazz di “Amarcord” e alla sua poesia in cui tutta la discendenza patrilineare “fava i matoni”) anche se non c’è una vera e propria economia della città: “è tutto legato all’imminenza” ci dice Riccardo Giavarini (da poco padrecito, cioè sacerdote) ma anche un po’ all’improvvisazione e all’approssimazione: banchetti per strada molto raffazzonati, mercati composti da una fila di baracche riempiono i lati delle strade asfaltate (non troppo bene) della città. 

Mi teleférico
Su internet si trova di tutto – scritto da chiunque – riguardo il peculiare trasporto pubblico di La Paz/El Alto, dunque non scriverò cose già dette meglio e più esaustivamente da altri, mi limito solo a dire che el teleférico è una idea geniale ma al contempo – per me che non apprezzo così tanto “il volo in sé” – abbastanza pauroso. Mi spiego: El Alto, e già il nome lo enuncia, un luogo più elevato di La Paz: la linea morada che collega le due città compie una specie di salto nel vuoto di parecchie centinaia di metri. Le foto parleranno da sé, anche se scattate con uno smartphone impugnato da un soggetto estremamente pauroso del volo e dell’altitudine:

Il fatto che abbia scattato la foto ben lontano dal costone – e non a ridosso di esso – fa facilmente presupporre al lettore la sensazione del tutto rilassata con cui abbia affrontato la discesa.

La discesa verso La Paz

La discesa verso La Paz (2)

Uno dei tanti canchitas (che però è femminile) de futbol di El Alto

El Alto e le montagne innevate sullo sfondo

La valle in cui è stata costruita La Paz. 

La prossima volta porterò la macchina fotografica e tenterò di scattarne delle altre. Sperando che riesca a scattarne di dritte.