¡Viva la vida, muera la muerte!

«Non so fino a che punto, ma lei, dottor Pereira, lo sa cosa gridano i nazionalisti spagnoli?, gridano viva la muerte, e io di morte non so scrivere, a me piace la vita, dottor Pereira»

Esattamente un mese fa, il 27 ottobre, il bar-bottega del commercio equo del centro di Nembro, Gherim, si è svegliato con una sorpresa scritta di nero sui paraventi dello spazio esterno. «Un rosso buono è un rosso morto», recitava la frase scritta nebulizzata a vernice sul paravento del dehors. C’era anche un simbolo ad accompagnare la scritta, uno di quelli appartenenti alla galassia delle formazioni neofasciste presenti in Italia.
Sulla stessa lunghezza d’onda, dieci giorni fa a Brescia è nato il comitato Remigrazione, egemonizzato da Casapound, evidentemente in cerca di rilancio mediatico e politico. Il comitato si ripropone, tra le altre cose, di introdurre l’istituto della remigrazione, cioè: «lo strumento di governo del fenomeno migratorio finalizzato a incentivare il ritorno degli stranieri nei Paesi d’origine».
Da «aiutiamoli a casa loro» a «riportiamoli a casa loro» è un attimo.

Entrambe le proposte hanno in comune un minimo comune denominatore: morte.
La prima lo richiama anche lessicalmente; la seconda non vi fa riferimento esplicito ma riconduce al concetto di “torna da dove sei venuto”, trascurando che le guerre occidentali si combattono sulla pelle di quello che un tempo veniva chiamato Sud del Mondo o Terzo Mondo. La sublimazione del pilatismo applicata alla contemporaneità. A chi tende il braccio per coprirsi dal sole, la morte piace moltissimo: sembra quasi che la desideri.
Fin da quando, d’annunzianamente, a Fiume si rispondeva «a noi!» al grido «a chi la morte?». Fin da quando le loro uniformi nere come l’abisso venivano decorate di teschi.

Un mese dopo quelle scritte, Gherim organizzerà una colazione solidale per promuovere i valori del commercio equo contro chi grida alla morte, rispondendo con: solidarietà, pace, libertà.
E se c’è qualcuno a cui piace così tanto la morte, chi parteciperà domenica 30 ribadirà il suo amore e il suo attaccamento alla vita.


¡Viva la vida muera la muerte!

Dieci anni fa, l’Anpi a Tor bella

Da quando mi sono trasferito a Bergamo, insieme a Maria abbiamo deciso di diventare volontari di Gherim, ovvero la cooperativa sociale di Nembro che gestisce la bottega e il bar al centro della città, entrambe realtà (bottega e bar) legate al mondo del commercio equo e di Altromercato. Una settimana dopo l’altra, turno dopo turno, si imparano a conoscere i clienti fissi ma soprattutto le persone imprescindibili per Gherim e per le varie realtà associative che vi orbitano attorno, sia di Nembro che del circondario.
Una di queste è Martino, già sindacalista Fiom e vicepresidente del Provinciale dell’Anpi di Bergamo,  che è solito passare da Gherim, anche perché è un volontario anche lui. Ci presentiamo, mi dice subito che è nell’Anpi: «Io non rinnovo la tessera da un po’», gli faccio, «precisamente dal 2021». Mentre pronuncio quelle parole, la mia testa passa in rassegna dei momenti trascorsi non propriamente idilliaci – legati alla sezione del VI Municipio – accaduti al termine di quell’anno. Lui si fa serio: «Allora la prossima settimana porto la tessera e la rinnovi». Dapprincipio non ero convintissimo ma è passato un giro d’orologio (forse meno) e non ho neanche provato a mostrare una qualche contrarietà, anzi, mi è sembrato un buon gesto da fare. Uno dei primi mattoni da porre per la vita bergamasca. Passano le settimane, i mesi: io e Maria andiamo e torniamo dal Vietnam, riprendiamo anche il fluire dell’attività dei volontari di Gherim. Una mattina Martino mi fa: «Il 26 luglio abbiamo organizzato la pastasciutta antifascista alla cascina Terra Buona».

Mentre sono lì, seduto al mio posto accanto a lui ma anche vicino [in bergamasco: in parte] a persone che non conoscevo (ad esclusione di alcuni che non giungevano al conto delle dita di metà mano), pensavo che ad aprile del 2015 avevamo fondato l’Anpi del VI Municipio di Roma. Sono passati già dieci anni. Chissà se i compagni del circolo si ricordano di questa ricorrenza, che forse impressiona solo me perché rappresenta l’anniversario a doppia cifra, quello del doppio lustro. Sono riuscito a ritrovare una foto dal Corriere Laziale di quel giorno (non molto nitida) e il post sul blog dell’Anpi di Roma. La foto a corredo del pezzo è un po’ sgranata ma non sono riuscito a reperirne un’altra. Si riesce,  comunque, a vedere ritratto tutto il direttivo al completo: me, Gianmarco Chilelli e Sofia Tiberi, al “tavolo della presidenza” del neonato circolo Nascimben, momentaneamente ospite della sala consiliare del VI Municipio di Roma, a Tor Bella Monaca, perché il presidente provinciale che allora era in carica ci aveva invitato (leggi: obbligato) a chiedere di poter stare in una sede istituzionale. Il più vecchio dei tre ero io (23 anni), Sofia la più piccola, fresca d’iscrizione a Giurisprudenza. Il circolo continua ad esistere e ha organizzato, come centinaia in Italia, la pastasciutta antifascista a Borghesiana.
Proprio l’altro ieri, dopo anni di silenzio, ci siamo scambiati dei messaggi con Gianmarco: era stato a Borghesiana e aveva ritrovato molti di coloro con cui avevamo condiviso l’inizio del percorso del circolo. Mentre percorro la strada che mi porta alla cascina, penso che forse i dieci anni del circolo Nascimben dovrebbero essere festeggiati in qualche modo, uno qualsiasi, purché venga ricordato uno degli ultimi municipi di Roma in cui al tempo non esisteva ancora l’Anpi, il cui circolo è stato organizzato per volontà di tre ragazzini.

È il 26 luglio [2025], sto entrando alla cascina Terra Buona a Nembro: c’è uno striscione dell’Anpi affisso sulle staccionate del primo piano che dà sul cortile interno: sento di stare nel posto giusto.
Una sensazione forse espressione di quando si dice “essere compagni”: quella sensazione che ti fa sentire a casa ovunque. Specie ora che dobbiamo sperimentare un nuovo modo d’esserlo, compagni, per sopravvivere alla Babele culturale di un’area che parla mille lingue ma che stenta a trovare una koinè di cui avrebbe disperatamente bisogno.

Nembro e il bar solidale. [La cooperativa? Un’alternativa alla crisi].

«Sai, la clientela è quasi sempre la medesima: siamo diventati il bar della piazza» e questo ha aiutato Gherim a riprendersi dai momenti negativi. Quelli legati al lockdown, ad esempio. Quando ero a Roma, durante gli anni scolastici del Covid, non sapevo neanche dove collocare Nembro sulla cartina. Ora che vivo da queste parti è tutta un’altra storia. Da quel momento in poi la storia di Gherim prende una piega diversa: «abbiamo attraversato varie fasi e, se devo dirti, non so davvero se riesco a ricordarle tutte». 

È il 16 maggio [2025] e, terminata la registrazione dell’intervista che sarà poi pubblicata il 19 su L’Eco di Bergamo, mi concedo un altro po’ di tempo con Francesca, la responsabile della bottega.
La cooperativa ha affrontato un momento per niente facile da superare: qui la scure del Covid si è abbattuta con maggior forza ma da quel dì è passato un lustro. 

«All’inizio non capivamo minimamente cosa stesse succedendo: avevamo paura perché arrivavano notizie in continuazione di amici o parenti che si ammalavano e morivano nel giro di pochi giorni. In pochissimo tempo ci siamo trincerati in casa: non uscivamo più». Il paese era bloccato. Tredicimila anime alle porte di Bergamo, al principio della Valle Seriana, una delle principali valli bergamasche. «Con i miei genitori – continua Francesca – avevo stabilito un orario per le chiamate: se ci fossimo sentiti ad orari diversi da quelli prestabiliti, avrebbe voluto dire mettersi in ‘allarme’». 
«Le campane suonavano a morto sempre più spesso, poi il parroco ha smesso anche di farle suonare. Il silenzio nel paese era spettrale ed era rotto solamente dalle sirene delle ambulanze che pure, con il susseguirsi dei giorni e all’aumentare delle chiamate, hanno deciso di presentarsi in silenzio e senza annunciare la propria presenza». 
Ma, in un modo o nell’altro, Gherim ha retto. 
«Ci sono stati riconoscimenti, i famosi ristori per mancata produzione: non è stato tanto ma neanche poco. Gli affitti sono stati stornati, le utenze non hanno pesato così tanto (avevamo spento tutto), ai dipendenti è stata riconosciuta una percentuale senza andar a gravare sulla coop: ci si è messi in cassa integrazione, tranne quando, successivamente, abbiamo ricominciato l’attività»
Ma anche la riapertura subiva continue oscillazioni e seguiva il flusso dei numeri pubblicati dai bollettini nel corso delle varie conferenze stampa serali: una situazione che continuava ad essere difficile da fronteggiare. 

«Come dipendenti c’erano solo Marco e Simona. Lei è venuta a mancare proprio quando sembrava che fossimo riusciti a venire a capo delle montagne russe delle continue chiusure e riaperture. Quando Simona ci ha lasciato ho pensato che fosse davvero troppo». Nei locali sopra il seminterrato in cui proseguiva la nostra conversazione, gli avventori del bar continuavano ad affluire: le risate spezzavano la tragicità del ricordo e gli ordini creativi di bevande, più simili a preparazioni galeniche che ad ordinari caffè, venivano enunciate una dopo l’altra.

«Passo dopo passo ce l’abbiamo fatta
ma sono stati mesi pesanti», sospira Francesca.

Il 31 dicembre [2025] scadrà la convenzione col comune per la gestione dei locali e Nembro potrebbe non vivere più lo spazio del Modernissimo gestito da Gherim ma la cooperativa pare aver ricevuto in dote il dono della resistenza. La situazione vissuta cinque anni fa ha mostrato che l’organizzazione cooperativa può essere una risposta alla crisi: «saremmo, effettivamente, già naufragati», ha affermato Francesca. 
Il sistema cooperativistico può rappresentare la risposta alla crisi economica e sociale, al di là di chi ha speculato su tale sistema, sull’organizzazione in sé, compromettendone la funzione agli occhi dell’opinione pubblica.
Certo è che «i volontari sono stati fondamentali: si sono rimboccati le maniche, hanno tamponato la mancanza di Simona fin da subito e hanno continuato ad essere una presenza costante successivamente». 
Dopo Simona, però, viene a mancare anche Sandro il responsabile della regia per gli eventi dell’Auditorium. Un’altra batosta.

«Una volta andato in pensione, aveva deciso di spendersi per la causa ed era qui tutti i giorni per svariate ore. Ha perfezionato tutto quel che era possibile, a regola d’arte. Ad oggi, il suo lavoro è stato sostituito da altri quattro. A detta loro “in quattro non riusciamo a fare quel che faceva lui” ma continuano a farlo per far sì che tutto il suo lavoro non vada sprecato, non riescono a sopperire alla sua professionalità, pur mantenendo in vita tutto quello che Sandro aveva costruito». 

Se si entra da Gherim per un caffè stando in piedi al bancone (come da prassi italianissima per la consumazione della tazzina) e si fa attenzione alla propria sinistra, si noteranno due foto: una di Simona e l’altra di Sandro. Un ricordo del prima perché il dopo non sia manchevole, soprattutto per chi non ha vissuto quella stagione
Qualsiasi cosa succeda dopo il 31 dicembre.

Maria alle prese col suo primo caffè.
Ultimo scatto di una Kodak usa e getta che ci è stata regalata dalle chicas Letizia e Francesca prima del viaggio in Vietnam. 

La [s]cicoria

La battaglia culturale di rivendicazione culinaria tra nord, centro e sud Italia si fonda spesso su luoghi comuni: dal Rubicone in giù si tende con estrema facilità a dare dei polentoni a coloro che abitano al di sopra della fu Linea Gotica. Allo stesso modo, chi abita nell’ex Lombardo Veneto si lascia andare in terminologie bossiane (terùn!) nei confronti di coloro che abitano dalle Marche in giù, fino ad arrivare a paragonare la cucina asiatica (aglio, curry, spezie, peperoncino e via dicendo) a quella del Mezzogiorno d’Italia.
Tanto più è aspra la lotta, tanto più prosegue intrisa di luoghi comuni e prese di posizione che affondano le radici nel «s’è sempre detto così», tale espressione in Bergamo viene condensata nello stringersi di spalle rivolgendo i palmi delle mani verso l’alto, accompagnando tale mimica con uno stentoreo «pota…».

Fatta questa premessa, è bene arrivare alla ragione del post: la cicoria. Parola la cui pronuncia alle orecchie dei non romani viene percepita con la s anteposta alla c, come per qualsiasi altra parola che preveda l’affricata palatale come prima lettera: [s]Cento(s)celle, ba[s]cio e via dicendo. 

Quell’erbetta spontanea così famosa a Roma (che in Veneto viene poco delicatamente chiamata pissacàn), nella bergamasca, semplicemente, non esiste. O meglio, non viene consumata. Si lascia crescere ma poi non viene raccolta e finisce per essere accomunata alle altre erbacce infestanti. A Roma facevo una gran scorta di cicoria sia quando mi trovavo a comprarla ai banchi del mercato di Torre Maura, sia quando mi trovavo presso i punti vendita della grande distribuzione organizzata (meglio noti come: supermercati). L’imperativo era uno: tornare a casa, indossare il grembiule (quello basso) da cucina, pulirla, lessarla e spadellarla. Dopodiché – insegnamento materno – aspettare che l’acqua di cottura si sia raffreddata per innaffiarci le piante. 

In una delle ultime spese romane prima del trasferimento, mi sono detto: «se riesco a trovare la cicoria all’Esselunga del Prenestino, ci sarà pure a quella di Bergamo. Per una volta diamo un merito alla grande distribuzione».
La prima cosa che ho fatto, dunque, una volta in Valle Seriana, è stata controllare la veridicità della mia supposizione: ci sono rimasto malissimo quando ho notato che la cicoria non solo non c’era quel giorno ma non ci sarebbe stata quel mese e non sarebbe mai giunta tra gli scaffali.
Idem per i mercati: cicoria questa sconosciuta. Ammetto che grande fu lo sconforto. 

La medesima sensazione, mista a vivo stupore, l’ho provata quando, a proposito di cicoria, ho iniziato a vedere in vendita barattoli di vetro al cui interno vi era della cicoria essiccata e triturata vicino al caffè solubile. L’etichetta esterna non mentiva: “Caffè di cicoria”.

«Da qua a ‘r Ventennio è n’attimo», ho pensato. 
Eppure qui al nord il consumo della bevanda surrogata non è così inusuale. Nelle discese romane ho appurato che anche nella Capitale sta tornando a fare capolino tale surrogato, sebbene ancor timidamente rispetto alle zone ex Lombardo-Veneto. 

Due aneddoti a riguardo.

Due aneddoti a riguardo.

Orrore e raccapriccio.

Dopo mesi di astinenza da cicoria, una sera mi trovo fuori a cena in una piccola località montana della media Valle Seriana. Leggo il menù e mi emoziono vedendo che tra i contorni viene proposta la cicoria: tento l’azzardo e ne ordino una porzione. Il cameriere arriva trionfante a portarmi il piattino contenente l’oro verde ma la mia emozione si è spenta come un cerino appena acceso esposto alla proverbiale Bora triestina. Il piatto conteneva sì cicoria ma semplicemente lessata. Bollita. Scondita. Non ripassata. 
Un colpo al cuore. (Però me la sono magnata lo stesso). 

Caffè di cicoria
Con Maria prendiamo la decisione di rimetterci in contatto con le strutture di Altromercato e del commercio-equo. A Nembro c’è una cooperativa che gestisce non solo una piccola bottega ma anche un bar che si regge, come consuetudine nella realtà di Altromercato, da lavoratori e volontari. Martedì scorso inizio il primo giorno al bar da volontario: servizio ai tavoli. Il tempo passa e tutti notano l’accento diverso alle loro orecchie: chi sorride, chi guarda storto, chi prova a fare il TotoProvenienza producendosi in un susseguirsi di grossolani errori.
A un certo punto, a metà mattina, mi sento chiamare da un tavolo: «Tè shcusa: mi porterèshti per favore un caffè di cicoria?».
Mi giro lentamente e c’è ancora il tizio con l’indice della mano destra proteso verso l’alto, sorridente, che nota la mia torsione del busto. Non riesco, stavolta, a mascherare l’accento [non ci riesco mai, a dirla tutta]: «Er caffè de [s]cicoria? Guarda io t’o porto pure ma hai sbajato periodo storico». Il tizio non coglie subito, ci rimane un po’ male, però mi fa: «No ma shi beve, neh… ma… di dove shei tè?». Sorride, non è ostile. Io rispondo scherzando e imito l’accento valligiano: «Pota, shono di Vilminore, io!». Lui, ancora più incredulo: « […] di…di Vilminore? Pota davvero?», quasi ci cascava. Per un attimo mi sono immaginato nella testa di questo tizio: uno che parla così può essere mai di Vilminore? MadonaHignùr è finito il mondo!
Dunque termino il gioco: «Ma no, te pare, sono de Roma. Quindi, abbiamo detto: un caffè di [s]cicoria?». Riprende il normale corso dell’ordinazione e torna a dire: «Shi, ecco, grazie! Ben caldo, per favore!». 
Mi avvicino al bancone per riferire: c’è Jessica (la barista) la quale non aveva ascoltato, intenta com’era a preparare caffè per chi non sarebbe stato da servire al tavolo. Le riferisco la comanda, aggiungendo a bassa voce: «Ma davero questo m’ha chiesto er caffè de [s]cicoria?». Lei, serenamente, sorride della mia totale ignoranza sui costumi della provincia e mi fa: «Si, eh: qui si usa tantissimo». 

Insomma, in Valle la [s]cicoria se la bevono.
Non sanno quello che si perdono.