Gli 85 di Giovanna Marini (e quell’intervista all’Adeia di Grottaferrata)

Nel novembre 2014, precisamente il giorno 14 di otto anni fa, mi bloccai con la schiena. Quella tra me e il nervo sciatico è una lunga storia che mi “prese del costui dispiacer si’ forte” che spesso e volentieri torna come le vicende amorose tossiche e prive di sbocchi. Avvenimenti del genere accadono solo in prossimità di eventi già prestabiliti, programmati e verso cui prevale un sentimento di attesa spasmodica prima che esso venga portato a compimento. Un po’ come la febbretta infame prima del viaggio (quale che sia) foss’anche il fine settimana al paese dei furono nonni in Abruzzo, Molise, Marche, province laziali qualsiasi. 

Il giorno dopo avrei dovuto intervistare Giovanna Marini alla Libreria Adeia: sabato 15 novembre ore 18:30, così come recitava la locandina realizzata ad hoc e in cui si leggeva a caratteri cubitali “Le interviste possibili”. Non come nel programma RAI di Alberto Arbasino degli anni ’70: queste erano proprio interviste possibili nel vero senso della parola. Giovanna Marini c’è e quel giorno c’era davvero.

Sarebbe troppo lunga spiegare come mai mi trovassi in una libreria indipendente di Grottaferrata con al mio fianco Giovanna Marini che rispondeva alle domande (in realtà faceva praticamente tutto lei, il bello era proprio quello *) e suonava le sue canzoni che l’hanno resa celebre nella nicchia di un certo tipo di cantautorato italiano. Sarebbe lunga anche dire come mai, a un certo punto, grazie a Emanuele, compagno di università e di calcio (sempre viva la Lokomotiv Casilina!) mi sono ritrovato a casa di sua mamma ad aspettare che la Marini uscisse da una lezione di yoga per parlare con lei e farmi raccontare cosa successe a Spoleto nel 1964. Perché, d’accordo: sapevo già tutto il caos accaduto al Festival dei due mondi in cui venne suonata “Gorizia tu sei maledetta” con tanto di verso ufficiale e non “rimaneggiato” (Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù), però sentirlo dalle sue labbra e dal vivo è tutta un’altra storia. Lo stupore che ebbe all’uscita della lezione di trovare un poco-più-che-ventenne che volesse incontrarla per conoscerla, era ben presente sul suo volto.

Così come, allo stesso modo, sarebbe lunghissimo dire come le mie orecchie entrarono in contatto con “I treni per Reggio Calabria” a 17 anni ma, forse, l’appartenenza politica ha giocato il suo ruolo anche in questo. 

Insomma, ieri Giovanna Marini ne faceva 85 e tra le cose belle che credo d’aver compiuto fino a qui (l’avvicinamento agli enta suggerisce qualche bilancio da iniziare a trarre) c’è sicuramente l’intervista a lei. Perché – certo – nella foto che hanno scattato al centro della piccola sala della libreria ero piegato dal dolore alla schiena (mi sarei rialzato esattamente inarcato ad angolo acuto) ma la felicità è stata indescrivibile. Le abbiamo regalato anche dei fiori: garofani rossi in maggioranza predominante su tutti gli altri e, giuro, quasi si stava per commuovere tanto era contenta di averli ricevuti. 

Tutt’ora, quando riguardo questa foto a distanza di anni, rivedo e percepisco nuovamente quella felicità e sorrido. Tantissimo. 

* In realtà la cosa fu comica: la gente si era assiepata ovunque. Ogni pertugio era occupato da sedie, persone in piedi, seduti per terra a gambe incrociate (ah, gli eventi prima del Covid!) e io ero lì a fianco a Giovanna Marini con una lista di domande a cui pensavo che lei rispondesse. In realtà gliene ho poste due di numero e da lì è stata un profluvio di parole. Ho seguito i suoi passi, mettendo i piedi dove li metteva lei e – di tanto in tano – la interrompevo costruttivamente per farle contestualizzare meglio quanto stava dicendo. A un certo punto si gira e, col microfono aperto, mi fa: “Ah ma ti eri proprio preparato le domandine!”. Ridono tutti, ovviamente, Francesco (gestore della libreria) si mette una mano in faccia a celare quel misto tra sorriso e pianto, io inizio ad assumere tutti i colori di Fantozzi a seguito dell’ingerimento del tordo intero. Però poi è andata bene, me la cavai come al mio solito, le dissi: “No, guardi, è che me le sono scritte per non perdermele, come le forze mie e l’ingegno del Lamento pasoliniano”. E lei: “Oh, ecco, a proposito del Lamento per la morte di Pasolini…” E cominciò a raccontare e suonare.

L'Orchestra 6 Corde, orgoglio torremaurense

In questi giorni riguardo Torre Maura se n’è sentita di ogni. Giorni di proteste razziste e di contromanifestazioni antifasciste. Per un attimo, vorrei esulare dall’attivismo per parlare pur brevemente dell’Orchestra 6 Corde. 
L’ensemble è formata da 12 ragazzi di Torre Maura e da poco ne sono parte anche io, anche se non sono proprio più un ragazzo dato che ho alzato la media d’età dei partecipanti. Sono ragazzi che lavorano, studiano, che il venerdì sera si vedono proprio in quella zona colpita dalle proteste dei fascisti accorsi da Pietralata e Tiburtino III per creare il caso mediatico. Io sono l’ultimo arrivato nell’orchestra, ma i ragazzi che vi partecipano vogliono suonare, creano aggregazione e cultura per loro e per chi gli sta attorno.
Il senso di questo breve post è che Torre Maura è quello che è: un quartiere che dovrebbe essere una piccola città ma che nel corso del tempo è tornato ad essere ‘borgata’ date le condizioni di disagio esponenzialmente superiori rispetto ad ogni altro fattore. Un quartiere che nonostante le criticità che ho precedentemente espresso, sa ancora mantenersi vivo. E questo è molto importante.

Il 27 aprile, ad ogni modo, suoniamo alla parrocchia di Via Walter Tobagi. Siateci!

L’orchestra al completo – con anche i 4 allievi più piccoli – al termine del concerto per la festa della parrocchia di Via Walter Tobagi

Achille Lauro e noi

Tutti conoscono la celebre canzone Come potete giudicar dei Nomadi, resa ancor più famosa dal particolare timbro vocale di Augusto Daolio:
«ma se vi fermaste a guardar con noi a parlar v’accorgereste certo che non abbiamo fatto male mai».
Poche parole ma dense di significato in una canzone che si traduceva davvero in ribellione contro lo status quo:
«quando per strada noi passiam/voi vi voltate per guardar/vivete pure se vi va/ma non dovreste giudicar/ci vuole poco ad immaginar/quello che state per pensar». 
Per chi fosse amante delle cose vintage, a questo link c’è l’esibizione dei Nomadi al 5° Cantagiro di Fiuggi: https://www.youtube.com/watch?v=rHVv81jIxRA
Lo scollamento fra la generazione precedente a quella che stava suonando e cantando questa canzone era pressocché evidente. Potremmo anche mettere da parte la sociologia e le analisi sull’Italia degli anni ’60 – la canzone è stata pubblicata nel 1966 – dal momento che è già evidente il messaggio che traspare dai versi: i capelloni passano per la strada, pantaloni a zampa d’elefante, magliette magari sdrucite, visioni politiche e sociali del tutto opposte alla morale dei loro padri, la gente più anziana li vede per strada e giudicano i loro costumi facendo illazioni su moralità, sessualità e quant’altro.
Non essendo un testimone diretto di quegli anni (infausta classe ’92) mi limito ad interpretare l’insofferenza che traspare manifestamente dalla canzone. Insofferenza ma, insieme, presa di coscienza di una nuova morale che stava sviluppandosi in quegli anni, giusta o sbagliata che fosse, nelle cosiddette giovani generazioni

Guardare l’Italia degli anni ’60 con agli occhiali le lenti del 2019 è un rischio che è bene non correre, tuttavia molte persone – giornalisti, intellettuali ma anche persone comuni che parlottano di fronte ad un bancone del bar – all’indomani della conclusione della 69esima edizione di Sanremo, hanno avuto modo di commentare i personaggi decisamente fuori dal coro apparsi sul palco paragonandoli a movimenti musicali di rottura del passato (punk su tutti).
Uno fra tutti: Achille Lauro.
Tralascio volutamente disquisizioni su Mahmood perché la reazione nella dilaniata opinione pubblica italiana (qualora ne esistesse ancora una) è stata duplice ma entrambe mi hanno provocato una violenta orticaria musicale, intellettuale, sociale, politica: i primi, afferenti alla sfera della sinistra radical-chic, parteggiano aprioristicamente per l’italo-egiziano affermando, in modo molto semplicistico e bambinesco è bravo, bene che abbia vinto anche se è chiaramente una bugia. I secondi, facendo parte della destra liberal-ma-anche-un-po’-salviniana-ognitantotendoilbraccio, inveiscono aprioristicamente perché è egiziano e, anzi, parteggiano per Ultimo per ripicca nazional-nazionalista. Anche questa, beninteso, reazione puramente fanciullesca.
Ma torniamo a noi: Achille Lauro. Rolls Royce
Giornalisti, intellettuali, scrittori, dunque una parte consistente dell’intelighenzia italiana, ha iniziato a fare paragoni tra Achille Lauro, trappisti (non i frati per nostra sfortuna) e sciagure musicali affini con il movimento musicale mondiale a cavallo tra gli anni ’60-’70.
Questa somiglianza si sostanzierebbe non tanto nella musica quanto con la volontà di ribellione al costume tradizionale della canzone italiana, semmai ancora ne esistesse una dato che il cantautorato come lo ha conosciuto il Belpaese è scomparso da tempo. 

La realtà è che la cultura capitalistica (o, se volete, il feticismo delle merci) diffusa massmediaticamente, di cui la canzone di Lauro de Marinis ne è stracolma, è un sintomo di quello che è questa fintissima ribellione moderna allo status quo

«Vestito bene Via del Corso […] No non c’è niente da capire/Ferrari bianco si Miami Vice»

passando oltre, ovviamente, al discutibile gusto di un Ferrari bianco.
La moderna “ribellione” si gioca tutta sui tratti propri di un’esclusione aprioristica del soggetto che vorrebbe lo stravolgimento: De Marinis, è vestito bene, in contrasto con il corpo tatuato; canta probabilmente senza sapere quali note stia producendo, eppure è sul palco di Sanremo.
Tutto questo per dire che, spesso, ci si trova di fronte a delle ribellioni ben controllate, che nulla hanno a che vedere con uno stravolgimento dello status quo: quella di Lauro sembra essere inserita in questo solco. Così come tutto il “movimento” della trap in Italia: l’estremizzazione del rap ostentando tutto quello che si fa in chiave criminal friendly.
Una trappola. Bella e buona.
In conclusione: si definisce la trap una «subcultura giovanile» che si «oppone alla tendenza culturale dominante»: una subcultura che, di fatto, ammette quella dominante del capitale e della monetizzazione di qualsiasi tipo di valore, sia esso umano, ambientale, musicale, materiale. E questo vale per ogni altra autodefinita subcultura: i centri sociali, ad esempio, definitisi subcultura, abbiamo visto la fine molto ben integrata al sistema che hanno fatto. Ben lungi dal disordine nel sistema che avrebbero voluto provocare, oggi esponenti di spicco di alcuni centri sociali si ritrovano ben acclimatati nelle direzioni di partiti tutt’altro che di sinistra (rivoluzionari, qualsiasi cosa voglia dire per costoro, manco a parlarne).
La trap sta tutta dentro questa dialettica dei nostri tempi che non distrugge e non trasforma nulla (scusaci Lavoisier) ma che peggiora una tendenza culturale che risente di un clima sociale ben poco edificante, estremizzando concetti e comportamenti che rimangono ben dentro il solco del consumo.

Buon viaggio (primo), compagno Pasqualino

Pasqualino.  Per me era il musicista e compagno Pasqualino, per altri il professor Ubaldini, come ho scoperto da Eros. Era il suo professore al Giovanni XXIII.
Pasqualino è venuto a mancare oggi. È partito, oggi. L’ho conosciuto grazie a Davide con cui suonava nel progetto Migala.
Quel gruppo per me rappresentava qualcosa di concreto e tangibile nella pratica musicale alternativa, il suono che creavano era davvero diverso rispetto a tutto quello che orbitava, e tutt’ora gira, attorno alla scena popolare e indipendente italiana. I Migala sono gruppo con cui ho avuto l’onore di suonare prima e dopo i concerti e con cui ho avuto il piacere di condividere momenti molto piacevoli della mia vita, in un momento in cui questa mi volgeva le spalle e sembrava essermi ostile. Davide si divideva fra i Migala e il quartetto/trio con me, Elena e Chiara. Una volta, in un concerto a Frascati, mi sono portato la pipa e avevo iniziato ad accendermela: ci siamo conosciuti meglio così, con Pasqualino, ragionando e parlando amabilmente dei tabacchi aromatizzati da usare per la pipa.
Chi lo conosce lo sa: suonava, davvero, qualsiasi legno che avesse delle corde e nel farlo era davvero stupefacente e irraggiungibile.
Quando con Gianmarco (nel 2015) avevamo formalmente fondato la sezione Anpi del VI Municipio (A. Nascimben), mi aveva contattato personalmente per prendersi la tessera, per raccontarmi delle cose sulla sua famiglia e per confrontarsi con me su alcune notizie riguardo la Guerra di Liberazione nel nostro quadrante. Abbiamo preso quell’appuntamento come fisso da quel giorno in cui decise di tornare ad iscriversi all’Anpi. Mi aveva detto che sperava, un giorno, si formasse la sezione dei partigiani d’Italia nel suo, nostro, municipio.
Ogni anno, infatti, dal 2015, ci vedevamo da Vitti per rinnovare la tessera, parlare, fumare assieme. Prima che fosse ricoverato, gli avevo proposto di musicare i “Discorsi da bar” a cui s’era appassionato: mi aveva detto che aveva già in mente qualcosa di “surreale” a supporto della voce. Non so davvero cosa potesse produrre per quei botta e risposta del tutto irragionevoli, ma sono sicuro che il risultato sarebbe stato insuperabile.
Assieme ai Migala aveva composto una canzone che amavo particolarmente e che qualcuno, in una giornata così triste come quella di oggi, gli ha dedicato postandola sul suo profilo Facebook: Viaggio primo (*).
Buon viaggio, anzi, come amavi dire tu:
Suerte!
(*) Scrivo questa postilla necessaria, sebbene abbia già pubblicato questo breve scritto. Viaggio primo, per me, era ed è tutt’ora, una canzone stupenda. Subito dopo aver ascoltato il disco dei Migala, confessai a Pasqualino e Davide che Viaggio primo fosse la canzone che mi era piaciuta più di tutte le altre. Pasqualino aveva sorriso e subito dopo si era messo a raccontare la storia di quel brano, lasciando tradire origini lontane nella sua produzione musicale. Certe volte, quando tornavo a casa da qualche suonata, da Piazza Vittorio o dopo aver suonato con Davide e Chiara: entravo in macchina, mi accendevo un sigaro e spingevo il disco sul tasto play. Nel lettore della macchina, della vecchia Ypsilon, c’era spazio per un solo disco, per molti mesi ho lasciato quello dei Migala e per svariate volte ho riascoltato, a ripetizione, quel viaggio primo, intriso di nostalgia. O, meglio, na partenza, nu ritornu, na speranza.

I "no-name" e Faber [per il ventennale]

Finite le scuole medie mi sono iscritto al liceo classico di Tor Pignattara, l’Immanuel Kant (che non è er Chent con cui venivamo bullizzati nella pronuncia da compagni e amici frequentanti, magari, gli istituti tecnici o gli atipici licei scientifici tecnologici). 
Sono e sempre sarò un pesce fuor d’acqua, ma nel passaggio fra medie e liceo lo ero ancora di più: di me stesso non conoscevo nulla, dunque figuriamoci di quello che mi accadeva intorno: una terra sconosciuta o giù di lì. Hic sunt leones. Una cosa, però, la conoscevo di me: volevo suonare la chitarra elettrica, possibilmente grattando il più possibile le sue corde e facendo uscire da una leggiadra e blues Stratocaster bianca, il suono più tombale, gracchiante, distorto e rauco che quel povero strumento poteva sostenere. Mi piacevano i Kiss. E già questo potrebbe dirla lunga sui miei gusti musicali di allora, così come si potrebbero esprimere dubbi circa la mia sanità mentale (perplessità tutt’ora valide) riguardo quanto allungassi la lingua cercando di imitare quella di Gene Simmons. Poi ho scoperto gli Slipknot, i Megadeth, i Motorhead e la voce di Lemmy, gli Slayer, i Death, gli Anthrax, gli Hyades, i System of a Down. Per fortuna un ragazzo, Alessandro, mi fece dono di un altro ascolto che mi folgorò altrettanto, ma solo dopo il periodo metallaro: il prog rock. Dunque i Genesis, Van der graaf generator, Le orme, TheDoors, i Gong!
Ma solo grazie ai Metallica ho conosciuto Valentino, Ivano, Marco e Valerio. Con loro ho iniziato a suonare le cover dei Metallica: ci chiamavamo Ekthra
Le passioni giovanili, tuttavia, sono difficili da conciliare con lo studio del liceo classico, specialmente con la mole di lavoro del ginnasio: in quinta ginnasio mi bocciarono, a causa di una mia manifesta idiozia che consisteva in ignorare tutto quello che, in realtà, avrei dovuto svolgere e compiere. 
Continuavo a grattare sulle corde e poco mi importava del resto: no life ‘till leather: we’re gonna kick some ass tonight!
Andavo in giro con le felpe dei gruppi, le compravo scegliendone – tra le tante – le più truculente. Quando cambiai scuola e andai al Benedetto da Norcia, secondo tentativo di quinta ginnasio, per una ragazza di un’altra sezione (Giulia) ero semplicemente il tizio con la felpa degli Slayer: ignorava come mi chiamassi ma sapeva che esistevo, in un certo qual modo. A volte mi mettevo anche lo smalto nero alle unghie. La matita attorno agli occhi no: ci ho provato qualche volta ma i tentativi furono davvero miseri, borchie sì, ma non troppe.
Da bravo stronzo qual ero (perché le cose bisogna dirle) non studiavo un cavolo e in quarta ginnasio sono passato perché i professori, avendo visto che c’erano degli elementi più gravi di me da bocciare, mi hanno graziato, ma in quinta non c’è stato appello.
Dietro, front: andare in galera senza passare dal via, non ritirate le banconote se ci passate e col cavolo che vi tirate fuori dalla prigione con il cartoncino arancione degli imprevisti. 
Manco per il cacchio. 
Dunque, ecco, ho continuato a suonare nonostante gli Ekthra stessero già perdendo pezzi e linfa vitale, poi scemata nel giro di poco tempo come quasi tutti i gruppi giovanili, pieni di ardori, entusiastica adolescenza, irrequietezza altrettanto dovuta dall’età.
In quegli anni, però non mi ricordo come entrammo in contatto, conobbi Domenico, compagno di classe di Valentino, il batterista degli Ekthra. Voleva iniziare a suonare delle canzoni di Fabrizio de André e aveva bisogno di uno che suonasse la chitarra con lui. Detto, fatto: iniziammo a suonare. La sua somiglianza con De Andrè in quanto a voce, timbro e vestiario era impressionante da lasciar basito chiunque.
Valentino, nei primi piani del gruppo, doveva suonare la batteria, ma le chitarre classiche con la tempra di un seguace di Dave Lombardo, c’entrano poco. Suonavamo una volta qui, una volta lì; una volta a casa mia, l’altra a casa di Domenico.
Qualche volta affittavamo anche una sala prove e ci capitava spesso di andare a Tor Bella Monaca, all’Ex Fienile, tuttavia successivamente ci spostammo a Quarticciolo. Durante una delle prove all’Ex Fienile Domenico pronunciò una frase che rimase negli annales (basta che nun finimo sui verbales – citazione che solo i due in questione capiranno) ammonendo Valentino perché pestava troppo sul rullante: «La tua presenza deve essere eterea, come un t’oh! guarda cosa c’è nell’aria!». 
Passano i mesi, il gruppo si struttura molto meglio fino a diventare, sostanzialmente una riedizione degli Ekthra: Domenico, Ivano, io, Valentino con l’aggiunta di Valerio, un mio compagno di classe, alla batteria. Valentino si era riadattato a suonare il basso e la cosa aveva davvero del comico, dato che lui, un basso, non l’aveva mai suonato. I primi tempi, per scherzare, usava una bacchetta al posto del plettro. Suonavamo bene: il primo concerto lo facemmo a San Lorenzo in un locale/associazione che si chiamava Sotto casa di Andrea anche se non andò proprio benissimo e il gruppo non era quello con Valentino bassista. C’è da dire che una certa fama iniziammo ad acquisirla nei concerti di Natale e fine anno scolastico. Ad ogni concerto miglioravamo negli arrangiamenti e nell’esecuzione: iniziavamo ad avere un discreto pubblico e un certo numero di sostenitori. Poi venne il 25 aprile, credo, del 2011. L’Associazione K.A.N.T. riuscì a mettere in piedi una manifestazione sulla main street di Tor Pignattara, alla Marranella. Palco, fonici, casse, amplificatori con testata, soundcheck. Cose serie, insomma. Inizia Domenico da solo, seduto come De André davanti al microfono, con lo stesso ciuffo e le gambe accavallate:
La bella ch’è addormentata
ha un nome che fa paura:
libertà libertà libertà.
Un giudice – no-name

La gente inizia ad applaudire. E così arrivano Un giudice, Volta la Carta, La guerra di Piero, Il Bombarolo, Il testamento di Tito, Bocca di rosa, Andrea, arrangiate sostituendo violini e altri strumenti con la forza di tre chitarre, il carattere di Ivano negli arrangiamenti e l’estro di Domenico, mentre avevamo le spalle coperte da Valerio, precisissimo metronomo. Un giudice la suonavamo stando tutti seduti sul bordo del palco, tranne Ivano che suonava sulla sedia dove poco prima c’era Domenico.

Poi finisce tutto e, davvero, chiesero il bis. Mi ricordo che ci mettemmo a ridere guardandoci negli occhi e ognuno cercando il viso e l’espressione dell’altro. 
Eravamo quelli che suonavano De André. Anche se per quel giorno fummo i no-name ma non per scelta: Domenico, semplicemente, disse che ci chiamavamo così perché non avevamo mai affrontato la questione del nome. Quando ci disse che ci avrebbero annunciato dal palco con il nome no-name ci prese la ridarella. Ma forse era una risata isterica pre-concerto.
E questo è tutto quello che ho da dire su questa faccenda.