Groenlandia, un Paese che non conosciamo

La Groenlandia 51° stato americano? Lo stato con il più alto tasso di
suicidi al mondo interessa agli Usa per le sue materie prime. Ma i primi
ministri, danese e groenlandese, chiudono la porta: “Non siamo in
vendita”

I sostenitori di Trump fanno già sul serio: hanno dato alle
stampe una maglietta raffigurante tutti i 51 Stati degli Stati Uniti
d’America. Già, uno in più: la Groenlandia. I Repubblicani non
scherzano: esortano il Presidente Donald Trump ad usare la notizia
dell’estate come argomento per la campagna elettorale. È bene, tuttavia,
fare un passo indietro. Ferragosto, il «Wall Street Journal» riporta una dichiarazione del Presidente americano Donald Trump
in cui ammette di voler presentare un’offerta al Governo danese per
l’acquisto della Groenlandia. La data della proposta sarebbe stata
fissata nel corso del mese di settembre, momento in cui era già in
programma l’incontro bilaterale Danimarca-Usa. L’affermazione – riporta
il «WSJ» – è stata pronunciata agli assistenti di Trump «con diversi
gradi di serietà». Il rischio boutade estiva era dietro
l’angolo, tuttavia la notizia ha fatto il giro di tutti i giornali e
portali d’informazione del Mondo, tale è stata la sua portata: l’America
vuole mettere mano al portafoglio per comprare l’isola più grande della
Terra, così come fece – d’altra parte – Henry Truman nel 1946 compiendo
il primo passo e formulando un’offerta per l’acquisto della
Groenlandia.

La Groenlandia, Donald Trump a parte, fa gola agli
Stati Uniti da diversi anni perché in una posizione strategica per
l’area, per le materie prime di cui è ricca, così come – probabilmente –
colma di petrolio e gas naturale. E poi, ancora, per lo zinco, il
carbone, il rame. Senza contare il fatto che gli Usa posseggono già una
base militare a Thule. Qualora l’isola dovesse diventare, davvero, il
51esimo stato americano le basi militari prolifererebbero verosimilmente
in tutto il territorio groenlandese.

La parola contraria (groenlandese e danese)
«Non
siamo in vendita», così la Primo ministro danese Mette Frederiksen (in
quota socialdemocratica) ha chiuso le porte a Trump ma, dopo aver
respinto duramente la proposta americana, il funambolico presidente
repubblicano ha annullato l’incontro previsto per settembre. Come a
dire: niente vendita della Groenlandia? Allora non abbiamo niente da dirci.

Contrarietà
e diniego sono arrivati anche dalla parte groenlandese della politica,
in regime di autogoverno ma formalmente appartenente alla corona danese e
rappresentata – per questo – al Folketing (Parlamento danese): il Primo ministro Kim Kielsen (Siumut
– socialdemocrazia groenlandese) ha fermamente risposto che la
Groenlandia è un paese indipendente, sovrano e che non ha costo perché
non sul mercato, così come la sinistra indipendentista rappresentata dal
partito Inuit Ataqitigiit, seconda organizzazione politica del paese.

La questione sociale: i suicidi
La
Groenlandia possiede un primato non molto edificante: è il primo paese
al mondo per quanto riguarda i suicidi: il tasso annuale è di 100
persone per 100.000 abitanti che decidono di farla finita.  Persino il
Giappone possiede un tasso più basso (51 per 100.000) nonostante abbia
documentata un’«epidemia suicida» specialmente tra gli adolescenti.

Secondo
Bodil Karlshøj Poulsen, direttore del centro di salute pubblica
groenlandese: «Ogni giovane abitante conosce un amico o un parente che
si è suicidato». La modernità è stata la causa della depressione e della
disperazione groenlandese: tra il 1900 e il 1960 i dati relativi ai
suicidi erano davvero bassi e decidevano di togliersi la vita solo 0,3
persone su 100.000. Dal 1970 tutto cambia e si arriva al picco del 1986
in cui la cittadina simbolo dei suicidi divenne Sarfannguaq,
con soli 150 residenti. Poulsen ha riferito in un’intervista al portale
statunitense «Slate» come dagli anni ‘70 in poi la depressione sia
cresciuta enormemente nella popolazione groenlandese: «La cura? Non
l’abbiamo, ma lo sport ha un impatto positivo enorme». Sia il calcio che
la pallamano, infatti, sono considerati sport nazionali e le strutture
per praticare queste discipline migliorano di anno in anno, così come la
qualità e i risultati internazionali, soprattutto per quel che riguarda
la pallamano, dal momento che la Fifa stenta a riconoscere la
Groenlandia come nazionale.

I rispettivi governi (danese e groenlandese), tuttavia, da anni studiano la questione e dal 2013 è stato avviato un piano di 6 anni per sensibilizzare gli abitanti tutti sul tema, intervenire con atti concreti e attuare misure di prevenzione.

La Casa Rossa: l’esempio di Robert Peroni a Tasiilaq
Robert
Peroni, italiano altoatesino, da circa 40 anni ha deciso di andare a
vivere in Groenlandia, nella parte più depressa e svantaggiata del
Paese, ovvero quella rivolta ad est. Oriente e occidente della
Groenlandia rappresentano mondi completamente diversi, sebbene
appartengano alla stessa entità nazionale e statale: nella parte
occidentale, più riparata dalle correnti glaciali, è presente la
capitale Nuuk, sede universitaria internazionale, e tutte le maggiori
cittadine in cui è possibile trovare un impiego lavorativo. La parte
orientale è legata alla caccia e alla pesca, dunque ancora seminomade.

Nella
cittadina di Tasiilaq, che conta poco più di 1.800 abitanti, Robert
Peroni ha aperto la ‘Casa Rossa’, uno spazio aperto in cui sì fare
turismo nelle stagioni in cui c’è più afflusso di gente da ogni parte
del Mondo, ma anche un luogo in cui 

«tutte le persone del posto possono
trovare riparo, un pasto caldo senza bisogno di pagare e in cui trovare
un po’ di quiete perché spesso si ubriacano e la loro abitazione non
diventa più ‘tranquilla’ come dovrebbe essere».

Oltre ad essere
esploratore, alpinista e – ora – guida turistica, Robert Peroni ha
scritto tre libri tutti per Sperling&Kupfer («I colori del
ghiaccio», «Dove il vento grida più forte», «In quei giorni di
tempesta») in cui racconta la sua permanenza e il rapporto sempre più
intimo che ha avuto con gli inuit nel corso degli anni.

L’alcolismo
e la disoccupazione sono fattori con cui gli abitanti di Tasiilaq
devono sempre più fare i conti, Peroni a più riprese ha avuto modo di
prendersela con Greenpeace e organismi internazionali che piacciono
molto agli occidentali perché difendono gli animali (in questo caso la
foca) ma che non hanno il polso della situazione groenlandese: «per loro
sono solo un italiano pazzo»
, ha detto anni fa a Pierfrancesco
Diliberto (Pif), che era andato ad incontrarlo a Tasiilaq per conto di Mtv e della sua trasmissione «Il Testimone».

In
questa fase storica i groenlandesi «hanno paura del futuro: non esiste
nella loro lingua una parola per poter parlare del futuro»
, ha più volte
detto Peroni. 

«Noi – ha affermato – parliamo  sempre del ”dopo”, del
”futuro” ma loro no, anzi, hanno paura di quello che accadrà: l’uomo
bianco (in lingua locale, il kalaallisut, qattunaa
, in
senso dispregiativo), gli ha tolto tutto perfino l’orgoglio di
cacciare», 

dal momento che l’occidente

 «ha impedito loro di sostentarsi
con la foca e la balena, nonostante abbiano quote severissime e regole
molto dure per il rispetto degli animali»,
 

al contrario di quel che
avviene in altri paesi come il Giappone che cacciano in maniera
scriteriata i cetacei non per sostentarsi ma per scopi commerciali.

La
Casa Rossa serve a creare un ponte:

«Bisogna sostenere la popolazione
locale in preda alla depressione, all’alcolismo e di qualcosa che non
conoscono ma che temono; parliamo di quello che potremmo fare molto
spesso e l’importante è essergli vicini e capire le ragioni di un popolo
pacifico, che non conosce la guerra e lo sfruttamento tra simili».

Certo
è che, come ha sostenuto lo stesso Robert Peroni a Tv2000:  

«Gli inuit
dovranno necessariamente imparare dall’uomo bianco e dalle sue usanze
nonostante egli non abbia affatto ragione»

Pena la scomparsa di una
cultura millenaria.

Pubblicato sulla sezione Tuttogreen de La Stampa il 7 dicembre 2019 [aggiornato il 25 novembre 2019]: https://www.lastampa.it/tuttogreen/2019/09/07/news/groenlandia-un-paese-che-non-conosciamo-1.37413836/

Cambiamento climatico, Mastrojeni: «necessaria la mobilitazione di tutti» – Rinnovabili.it

Parla Grammenos Mastrojeni diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo: ha scritto “Effetto serra: effetto guerra” per Chiarelettere (2017) dimostrando come cambiamento climatico e conflitti siano intimamamente connessi.


«Bene le prese di posizione dei governi sul cambiamento climatico ma serve mobilitazione collettiva: la natura non reagisce ai “pezzi di carta”»
(Rinnovabili.it) – 15/05/2019 

Il Pentagono, quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha recentemente stabilito come il cambiamento climatico acceleri situazioni di instabilità portando ad estreme conseguenze (conflitti) situazioni difficili e già provate da crisi interne o indebolimenti. La connessione fra il cambiamento climatico e lo scoppio delle guerre è anche il tema del libro di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini pubblicato da Chiarelettere: “Effetto serra: effetto guerra”.
Di questa connessione tra clima e guerra ne abbiamo parlato con Mastrojeni, diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo. 

Cambiamento climatico e scoppio di conflitti sembrano due tematiche apparentemente distanti ma leggendo “Effetto serra: effetto guerra” si scopre che è l’esatto contrario.
«Da sempre c’è un legame fra stato dell’ambiente e stabilità delle società: si è manifestato anche in tempi lontani (tra l’anno 400 d.c. e l’anno 1000) con delle fluttuazioni spontanee, ad esempio legato ad un periodo di raffreddamento in Asia centrale, connesso ad un aumento del 200% dei conflitti. Le stesse ‘invasioni barbariche’, così come siamo soliti chiamarle, che hanno portato al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, sono state sospinte all’origine da alcune fluttuazioni climatiche. La questione è che con l’influsso umano la scala cambia: sia in termini temporali (le fluttuazioni diventano più rapide ed improvvise), sia in termini volumetrici del cambiamento, dunque l’effetto viene esacerbato. Attualmente, secondo ricerche condotte dal G7 (dunque non da ‘circoli ambientalisti’) tramite alcuni think-tank, risultano in corso 79 conflitti che hanno il cambiamento climatico tra le concause. Come avviene tutto ciò è abbastanza ovvio: non è tanto il fatto che con il cambiamento climatico arrivino dei fenomeni estremi, non è neanche il fatto che vi sia più penuria di risorse, ma è dato dal fatto che il comportamento della natura diventa imprevedibile e, di conseguenza, nell’imprevedibilità non si può organizzare né la produzione agricola, né la convivenza civile, perché entrambe le cose sono fondate sui ritmi della natura».

Il fattore dell’imprevedibilità, dunque aggrava notevolmente un quadro già destabilizzatosi?

«Certo, destabilizza le società, soprattutto quelle più fragili: quando queste si ‘disorganizzano’ il conflitto aumenta di probabilità».

Tutto quello che ha detto ci riporta all’attualità e al continente europeo: può essere considerata come ‘globale’ la partecipazione militare dei paesi della Nato (dunque anche dell’Ue) a dei conflitti spesso causati anche dal cambiamento climatico fuori dai confini occidentali?

«La caratterizzazione del conflitto, in realtà, è data dalla situazione di fatto. Di globale dobbiamo temere una tendenza alla saldatura delle differenti zone di destabilizzazione. Fino ad ora il Pentagono ha definito il cambiamento climatico come un acceleratore di conflitti, dunque non una causa, ed è vero: laddove è presente una società fragile, se “ci si mette” anche il mutamento del clima, la situazione contribuisce a creare un conflitto. Per ora queste fasce di fragilità sono relativamente isolate le une dalle altre. L’esacerbarsi dei cambiamenti climatici e il fatto che l’instabilità che nasce in zone povere si trasmette a catena nelle zone circostanti (e anche più lontane) fa sì che la situazione diventi ingovernabile.
Pensiamo ad un conflitto che ha tra le cause dello scoppio anche quella climatica, ovvero la guerra in Siria: ha portato a una catena di conseguenze a partire dalle migrazioni, che a loro volta, hanno avviato un principio di destabilizzazione – fra virgolette – in Europa. Da quel momento si è iniziato a voler ritrattare Schengen e si è cominciato un dibattito sulle responsabilità delle migrazioni fra Stati. Tali irradiazioni, così facendo, inizieranno ad intrecciarsi e si andrebbe verso uno scenario di destabilizzazione sistemica collocato non troppo in là nel tempo: il turning point è al 2030».

Se, per caso, dovesse verificarsi un evento naturale imprevedibile, come diceva prima, il turning point scenderebbe ulteriormente?

«C’è un esempio che ho citato anche nel libro: se si dovesse verificare lo scioglimento del ghiacciaio dell’Himalaya si andrebbe incontro ad una situazione che metterebbe in movimento più di un miliardo di persone, l’evento avrebbe un carattere decisamente globale».

Le migrazioni connesse alla guerra in Siria, che prima ha citato, e quelle scaturitesi all’indomani della guerra in Libia, possono essere chiamate ‘migrazioni economiche’ o, secondo lei, ‘migrazioni climatiche’?

«Innanzitutto c’è bisogno di serietà su questo argomento: non c’è un’unica causa scatenante e sono molteplici, dunque è tutto ‘multifattoriale’ ma i cambiamenti climatici hanno – certamente – impatti su vari territori. Un anno molto interessante, in tal senso, è stato il 2011: in Australia ad esempio è stato caratterizzato da fortissimi inondazioni alternate ad una fortissima siccità. L’Australia, che ha uno Stato forte, è riuscita a contenerne gli effetti entro una dinamica ordinata. Nello stesso anno ci sono stati dei paesi che non sono stati colpiti direttamente dai cambiamenti climatici (parlo di quelli della sponda sud del Mediterraneo) ma ne hanno subito gli effetti indiretti perché questi hanno fatto aumentare i prezzi dei prodotti agricoli (quei paesi ne importano molti) e si è venuta a creare molta povertà. Questa situazione è stata all’origine delle ‘primavere arabe’. L’Italia, che è il paese più esposto, non mi sembra si stia curando troppo di questo tema. Al momento è difficile andare ad identificare una sola motivazione: la causa unica di migrazione relativa al cambiamento climatico per ora si verifica in sparute situazioni».

Ad esempio quali?

«I primi rifugiati climatici ufficiali vengono dagli Stati Uniti: a causa della fusione del permafrost in Alaska, che destabilizza le fondamenta fisiche delle comunità, si sono dovute muovere delle persone. Oltre che dall’Artico, iniziano anche a venire dalle isole».

È notizia di questi giorni, a tal proposito, la denuncia degli abitanti delle Isole dello Stretto di Torres che hanno denunciato il governo australiano. Anche questo potrebbe rientrare in possibili situazioni che genererebbero ‘rifugiati climatici’?

«Questi sono i primi ‘movimenti climatici’. Se andiamo nelle cose che ci riguardano più da vicino, che sono più consistenti e dove l’impatto del clima è intessuto con altre forme di instabilità, è molto difficile dare un’etichetta all’uno o all’altro. Quello su cui si deve fare chiarezza è che non esiste affatto il ‘migrante climatico’».

Perché?

«Perché ‘migrante’ è qualcuno che ha un minimo di scelta libera nella decisione di muoversi e non è vero che quanto più si è poveri tanto più si è propensi a muoversi. Al di sotto di una certa fascia di reddito si rimane intrappolati in quella che viene definita la ‘trappola della povertà’: hai, cioè, un reddito talmente basso che ti è impossibile partire e la migrazione non rientra fra le tue prospettive; la tua unica urgenza è dettata dalla necessità di reperire un pasto per la giornata e ti è impossibile perfino pianificare di andare al villaggio più vicino. Quando si verifica un evento ambientale che può destabilizzare una situazione già precaria, se colpisce coloro che già si trovano nella fascia di quelli che contemplano una migrazione generalmente può essere assorbito da essi: posseggono, cioè, risorse a sufficienza da sopperire ad un mancato raccolto. Se sono sufficientemente ricchi da contemplare una migrazione volontaria, sono anche sufficientemente ricchi per assorbire delle fluttuazioni del clima. In realtà colpisce, generalmente, quelli che si trovano nella ‘trappola della povertà’, dunque non crea migrazioni ma movimenti forzati ed è una cosa completamente diversa».

Cioè?

«I movimenti forzati si distinguono dalle migrazioni perché le prime, se ben gestite, possono essere utili per la zona di provenienza, per chi parte e per la zona di arrivo. D’altra parte, invece, se si mette in movimento qualcuno che non ha alcuna ‘difesa’ costoro si tramutano in combustibile per movimenti fanatici, per il traffico illecito, per la criminalità: sono situazioni destabilizzanti e nocive per tutti. L’insegnamento di Madre Terra è che bisogna occuparsi primariamente dei più poveri altrimenti ‘pagano’ tutti».

Che giudizio dà a proposito delle due mozioni sull’emergenza climatica in Regno Unito e in Irlanda? Auspica che altri Parlamenti facciano altrettanto?

«Per me il valore maggiore di questi atti non è la cogenza ma la presa di coscienza e spiego il perché: nel 301 d.c. l’imperatore Diocleziano si trovò di fronte ad un’inflazione incontrollata e gli venne in mente di istituire ciò che oggi chiameremmo ‘il calmiere’ [l’ Edictum de pretiis n.d.r.]. Ufficialmente i prezzi non salirono più ma il vero risultato che ottenne è che il mercato si spostò su quello nero. Quello che voglio dire è che il cambiamento climatico non si risolve per decreto legge ma con la mobilitazione dell’intera società. Tra l’altro è una mobilitazione che paradossalmente non avviene massivamente: qualsiasi atto di sostenibilità porta sia più benessere che più ricchezza. Una mobilitazione collettiva significherebbe disinnescare il cataclisma pagando il prezzo di stare meglio».

Dagli strati più poveri al benessere di tutti, insomma.

«Ma non solo occupandosi, direttamente e unicamente, di strati svantaggiati: lo si fa anche occupandosi di se stessi. Se pensi alla tua vita vita quotidiana e decidessi di nutrirti, lavarti e muoverti in maniera più salutare, lo fai per te stesso: stai creando sostenibilità nella misura in cui rispetti la tua vera natura, tutto ciò che è salutare è anche sostenibile.
Salutare, ovviamente, va inteso a 360 gradi: se scegli di muoverti in maniera sostenibile generalmente spendi di meno e non solo hai più salute ma hai anche spazi di socializzazione migliore. Questo discorso che vale per ogni individuo vale anche per l’impresa».

In che modo?

«Le imprese si stanno accorgendo che hanno tutto da guadagnare ad essere sostenibili, tant’è che i più cattivi dei cattivi dell’economia, cioè la finanza, hanno spostato gli impieghi di investimento sulle cosiddette attività sostenibili (tecnicamente si chiamano ESG) dallo 0,2% al 24% in 10 anni: un progresso enorme. Parallelamente stanno puntando ad avere il 60% dei loro portafogli su attività sostenibili entro breve: non sto parlando di Banca Etica ma di Blackrock! Quello che noi dobbiamo innescare lo dobbiamo fare certamente anche con l’apporto e l’appoggio istituzionale, legislativo e fiscale ma quello da solo, se non è recepito e compreso dalla società, diventa una distorsione».

Come si fa a fare in modo che venga percepito da tutti?

«Bisogna far toccare con mano la questione viva. Le imprese hanno un vantaggio su tutti, dunque lo hanno compreso e si stanno muovendo rapidamente in tal senso.
Dobbiamo sovvertire la narrativa tradizionale, paradossalmente, che vede l’economia cattiva verso un pubblico buono, per dirla in maniera molto semplice: non è questione di essere buoni o cattivi ma il consumatore ancora non ha interiorizzato i benefici della sostenibilità dal punto di vista delle proprie scelte consapevoli. Esco per un attimo dai binari dell’argomento principale ma completo quanto sto dicendo: abbiamo pochissimo tempo per rimediare, al massimo dieci anni. Purtroppo non possiamo contare su una totale presa di consapevolezza collettiva che porti a delle scelte di cambiamento volontario e coerente. L’essere umano difficilmente reagisce all’interesse collettivo ma a quello individuale: si sa che soltanto il 2% dei consumatori (e questo è un dato transculturale) incorporano la loro domanda di consumo sostenibile e tipicamente costoro sono i clienti del commercio equo e solidale.
Botteghe importanti ma anche simboliche: rappresentano una fascia minuscola del mercato. Questo non vuol dire che si tratta di una battaglia persa perché sta succedendo qualcosa: oggi la sostenibilità non si compra perché ‘salva il Mondo’ ma perché il prodotto è migliore. Nel settore del turismo la questione è evidente: dieci anni fa l’attività più ricercata era il ‘Resort all inclusive’, altamente insostenibile, dove il grande lusso la faceva da padrone; oggi l’attività più ricercata è quella che ti porta in condizioni di scomodità, in un nugolo di zanzare, a vivere da vicino la natura incontaminata. Tornando al cibo: non possono permetterselo tutti, ma moltissimi consumatori, se potessero, si orienterebbero verso il biologico e il non-industriale. Qui la tempistica ci pone un problema di scala, nel senso che la volontà ci sarebbe ma per ora sono mercati per fasce ricche e bisogna incoraggiarle – paradossalmente – perché facendo in modo che essi comprino creano quell’economia di scala che poi consente di allargare l’accessibilità anche alle fasce più povere e lo si è visto in Germania in cui il biologico era appannaggio dei più ricchi ed ora è accessibile di tutti».

Orientarsi più su questo, dunque, che non sugli atti politici?

«Certamente ma non dico che non servono, anzi: segnalano l’unitarietà della società e la consapevolezza in tal senso che è l’unico fattore che può cambiare le cose per tempo. Allo stesso modo un trattato, una legge, un provvedimento fiscale è carta. E la natura non reagisce ai pezzi di carta».