Tag: radio radicale
Orban, quel «liberale, europeista, anticomunista» che piaceva a liberali e radicali italiani
![]() |
| Victor Orban |
Ho iniziato ad ascoltarla una mattina di dicembre del 2011, cominciando con “Stampa e Regime” di Massimo Bordin, finendo per sciropparmi le interminabili conversazioni di Marco Pannella la domenica pomeriggio.
Seguivo la trasmissione la domenica pomeriggio (o in replica il giorno dopo) più per gli scleri che potevano intercorrere tra Pannella e Bordin che per le tematiche in sé (qui, a partire 1:27:00, il fenomenale litigio fra il povero Bordin e Pannella che sancì formalmente il divorzio politico tra lui e la Bonino, da sentire in loop anche per l’ilarità delle espressioni basite e ignare di Bordin nel corso del diverbio).
È l’espressione più vera di quell’europeismo che ha tradito l’opera dei “padri fondatori”: sono dei popolari europei abusivi [il riferimento è al PPE ndr], dei liberali europei non ne parliamo proprio [il riferimento è all’ALDE ndr]».
L’espressione padri fondatori si riferisce a Spinelli e Rossi, citati successivamente dallo stesso Turco, solo che – e non stancherò mai di dirlo – questi tempi disgraziati fanno sì che del «Manifesto di Ventotene» venga sistematicamente scartato l’ultimo capitolo “Politica federalista e politica marxista”. Non è il mio testo di riferimento, ovviamente, ma se lo si leggesse integralmente, forse, si capirebbe che le menate dei liberali, liberisti, europeisti (etc) hanno davvero una scarsissima base d’appoggio sul testo spinelliano.
Anche Guy Verhofstadt, comunque, in uno dei tanti interventi al Parlamento Europeo diretti al Primo Ministro ungherese, pare rimanerci molto male riguardo al voltafaccia di Orban in seno all’area liberale, come dire: d’accordo che sei il primo ministro, ma non t’azzardà a prenderti l’establishment, quella è rob(b)a nostra. Anticipando, tra l’altro, una citazione che seguirà qui.
Forse il «New York Times» fornisce una parziale risposta agli interrogativi che sorgono a seguito dell’ascolto di Turco. In un articolo del 6 aprile 2018, infatti, Patrick Kingsley scrive: «Durante gli ultimi giorni del comunismo in Ungheria, un giovane dissidente liberale scrisse a una fondazione gestita dal filantropo ungherese-americano George Soros, chiedendo una sovvenzione per finanziare la sua ricerca sulla democrazia di base. L’Ungheria avrebbe attraversato presto una “transizione dalla dittatura alla democrazia”, ha scritto lo studente nel 1988. “Uno degli elementi principali di questa transizione può essere la rinascita della società civile”. Lo studente era Victor Orban». Lo stesso Kingsley, in ogni caso, arriva alle stesse conclusioni di Turco, affermando come il Primo Ministro ungherese sia diventato «il flagello della società civile occidentale (e di Mr. Soros) (!!)». Vabbè.
Il capitale, ad ogni modo, agisce sempre e comunque con lucida razionalità e spietatezza: in questa fase vasti settori del capitalismo nazionale e delle élites transnazionali vedono di buon occhio il cosiddetto “sovranismo nazionalista”, lasciando orfane di appoggio intere schiere di lib-dem europei che si ritrovano senza gli appigli precedenti. La destabilizzazione che potrebbero portare costoro non infierirebbe sui mercati, di cui tanto (straparlano) i quotidiani italiani ed europei: alcune Costituzioni post-belliche sono troppo socialiste, come scrisse l’agenzia di rating JP Morgan, dunque ecco che alcuni settori del capitale transnazionale (Domenico Moro docet) si muovono per far fronte in tal senso e destrutturare pian piano quelle impalcature, direttamente o indirettamente. È significativo, poi, continuare a constatare (anche col senno di poi) che le forze liberal democratiche condannino ancora oggi metodi stalinistisovieticirepressividittatoriali operando con azioni del tutto poco chiare e decisamente torbide per rovesciare un sistema, quale che sia, provocando danni irreparabili non meno imponenti di quelli che loro stessi condannavano.
Ecco spiegato il risentimento dei gruppi liberali nei confronti del fascista Orban, ma resta il fatto, del tutto interessantissimo, dell’appoggio radicale e dell’investimento in Ungheria.
Ma quale "altra Europa", «rinegoziare i trattati non è possibile». [E non sono io, un signor qualunque, a dirlo]
«[…] Ovviamente le elezioni italiane rappresentano un ostacolo [come] il segnale del nazionalismo che avanza anche nei paesi che dovrebbero essere il cuore della costruzione comunitaria. Ciò detto, il pericolo per l’Italia, soprattutto nel momento in cui si apre una fase di incertezza e di instabilità che rischia di essere particolarmente lunga, è di essere messa ai margini dal dibattito sul futuro dell’Europa che riguarda la ristrutturazione della zona euro, il bilancio pluriennale dell’Ue: questioni decisive che riguardano anche il futuro del nostro Paese.
C’è poi la possibilità che al Governo arrivi una forza come quella della Lega, Matteo Salvini ha confermato ieri come l’Euro sia destinato a finire o come il Movimento 5 Stelle, che ha attitudini molto ambigue rispetto alla moneta unica: ancora oggi si dice [dalle parti del Movimento n.d.r.] di voler ridiscutere i trattati. L’esperienza della Brexit e della [mancata? n.d.r.] Grexit insegna una cosa: l’UE è pronta a discutere con qualsiasi governo e pronta a discutere qualsiasi scenario, lasciando libertà ai suoi stati membri, però nel rispetto delle regole e di tutti. Il che significa che rinegoziare i trattati non è possibile, fondamentalmente».
Il virgolettato, sbobinato da me medesimo, appartiene a David Carretta, corrispondente a Bruxelles di «Radio Radicale» ed è tratto dal collegamento di stamattina nell’abito del notiziario mattutino dell’emittente (lo trovate qui dal primo minuto fino a 6:45: https://www.radioradicale.it/scheda/535130/notiziario-del-mattino).
L’europeismo “di parte” di Carretta lo lascio stare per un attimo e prendo in considerazione quel che dice classificandolo come il commento di un cronista preparato in questioni europee, quale è Carretta: è evidente che quello che ha detto lo ha pronunciato conscio di quello che stava proferendo. «Ridiscutere i trattati», secondo l’UE, «è impossibile». Si può prevedere l’uscita di un Paese, come accaduto al Regno Unito, ma la ridiscussione è del tutto improbabile, anzi.
Né è ammessa dalla struttura politico-finanziaria dell’UE.
La questione, checché ne dicano gli ingenui pro-UE o i fanatici di una cosiddetta “altra Europa”, è spiegata con logica cristallina dal giornalista di «Radio Radicale» e forse il commento di Carretta è più diretto a costoro (i sostenitori di una Europa “diversa”) che ad altri: la riformabilità dell’UE dall’interno è un’ipotesi inesistente e rappresenta uno scenario non contemplato dall’UE stessa. La stessa mossa dei paesi fondatori di far nascere prima l’Unione economico-monetaria e in un secondo momento organizzare la cosiddetta “Europa politica” non è un errore, come viene definito da taluni. È una scelta politica chiarissima: il sistema economico capitalista, declinato come neoliberismo, è il guscio di una struttura ademocratica, cioè priva di democrazia, e antidemocratica, estremamente contraria alle logiche di democrazia parlamentare e rappresentativa così come conosciuta per tutti gli anni ’90 del Novecento; al dissenso (quale che sia) e alle politiche sociali.
È sempre più necessario agire, anche nel proprio quotidiano, da anticapitalisti non solo da antiliberisti: dichiararsi antiliberisti presuppone accettare un capitalismo moderato in cui il welfare state può ritrovarsi e riadattarsi. Quel periodo storico, tuttavia, non si ripresenterà più e i mercati fagociteranno qualsiasi iniziativa pro-stato sociale, in ogni luogo del Pianeta. Emblematiche furono le dichiarazioni della Ministra della Sanità della Lituania nel 2014: «la sanità non è per tutti ma per chi se la può permettere». Allo stesso modo gli altri servizi. È il capitalismo, bellezza.


