Il premierato di Meloni: a gamba tesa sulla Costituzione

Venerdì scorso [3 novembre] il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità il disegno di legge di riforma costituzionale su proposta del Primo ministro Giorgia Meloni e della Ministro per le riforme costituzionali e semplificazione normativa Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Il disegno di legge in questione riguarda l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri, cioè quello che in altri paesi si chiama premier. Una proposta di riforma della Costituzione, in poche parole.

Una doverosa precisazione semantico-ideologica

La stampa italiana da almeno un decennio si riferisce (ormai diventata consuetudine) al Presidente del consiglio dei ministri con il nome di premier: non se ne conosce la ragione, in ogni caso sono due espressioni che fanno riferimento a forme di governo differenti. Non è un problema (solo) di nomi ma di poteri. Il fatto che il termine premier sia utilizzato con disinvoltura dalla stampa italiana in favore della locuzione “Presidente del consiglio dei ministri” rappresenta di per sé un fatto assai grave, considerando anche il fatto che da parte politica si fa riferimento da sempre più tempo alla dicotomia “governi eletti dal popolo” e “governi non eletti dal popolo”. I governi tecnicamente non sono votati da nessuno in Italia. Nella Costituzione, per fare un esempio, il termine premier non viene riportato da nessuna parte, né è mai stato normato che il candidato del primo partito debba obbligatoriamente essere designato dal Presidente della Repubblica come Presidente del Consiglio dei Ministri (non premier). Benedetto (detto Bettino) Craxi è stato per anni Presidente del Consiglio con il PSI ben lontano dal 15%. Altroché “stabilità il giorno dopo delle elezioni”. 

Il “premierato” di Meloni
Cinque articoli in tutto per il disegno di legge (ddl) del Governo, stando al comunicato pubblicato al termine del consiglio dei ministri. La riforma costituzionale:

«ha l’obiettivo di rafforzare la stabilità dei Governi, consentendo l’attuazione di indirizzi politici di medio-lungo periodo; consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione; favorire la coesione degli schieramenti elettorali; evitare il transfughismo e il trasformismo parlamentare».

Cioè?

Vale a dire che il ddl prevederebbe: l’elezione diretta del Presidente del consiglio dei ministri; l’elezione contestuale del presidente e del Parlamento; una nuova legge elettorale – per forza di cose, verrebbe da dire – che assicurerebbe un premio di maggioranza assegnato su base nazionale del 55% dei seggi al partito o alla coalizione di partiti collegati al presidente del consiglio; abolizione, infine, dei senatori a vita. Riappare un premio di maggioranza consistente. Non è specificato, né è stato ribadito in altre sedi, se l’elezione diretta del Presidente del consiglio dei ministri debba avvenire in un turno o se è previsto un ballottaggio. Nel caso in cui l’eventuale ballottaggio venga preso in considerazione dal Governo, si assisterebbe al ritorno della proposta di riforma Renzi che l’allora Presidente del consiglio aveva denominato “sindaco d’Italia”.

Numeri o referendum

Per riformare la Costituzione o approvare una legge costituzionale serve la maggioranza assoluta delle due Camere, comunque è necessaria la procedura prevista dall’articolo 138. L’articolo stabilisce che la riforma può essere sottoposta al referendum popolare, quello in cui incappò Renzi tempo fa. Quando disse che avrebbe lasciato la politica qualora avesse perso la tornata referendaria. Eppure la Presidente del consiglio ha definito il disegno di legge licenziato dal consiglio dei ministri la «madre di tutte le riforme che si possono far e in Italia». Anzi, ha detto di più: «Negli ultimi 20 anni in Italia abbiamo avuto 9 presidenti del consiglio con 12 governi diversi; in Francia 4 presidenti della Repubblica, in Germania 3 cancellieri. Nello stesso periodo di tempo Francia e Germania sono cresciute più del 20%, l’Italia meno del 4%». Il “protocollo è chiaro”. La colpa dell’arretratezza italiana non sta nella mancanza di una classe dirigente (trasversalmente parlando), di partiti ormai diventati comitati elettorali permanenti, di politiche strutturali e di dibattito pubblico su modelli di sviluppo e visione del mondo. La colpa è da rintracciare nella forma di Governo: con il premierato ci aspetterà un futuro roseo. Parola di Meloni.

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale

Italia sempre più povera, Meloni pensa al premierato – Atlante Editoriale

Secondo lo studio allegato al XXI rapporto Inps, condotto da Nicola Bianchi e Matteo Paradisi, denominato “Countries for Old Men: an Analysis of the Age Wage Gap” [Un paese per vecchi: un analisi del divario salariale per età], l’Italia è uno di quei paesi in cui le cose vanno peggio circa il divario salariale (cosiddetto gap) tra vecchi e giovani. Le cause di questa situazione, per cui un giovane riesce a trovare un’occupazione stabile più tardi rispetto al 1985 e comunque meno retribuita rispetto a tre decenni fa, va ricercata nella crescente esternalizzazione cui ricorrono le aziende, così come nell’aumento dell’età pensionabile. I «lavoratori più anziani hanno hanno esteso le loro carriere occupando le loro posizioni apicali più a lungo ed impedendo ai lavoratori più giovani di raggiungere le posizioni meglio retribuite», sostengono gli economisti rispettivamente della Northwestern Kellogg School of Management e dell’Einaudi Institute for Economics and Finance.

Precarietà e somministrazione
A quanto detto, si aggiunga la questione secondo cui per il Governo, almeno stando al decreto denominato pubblicisticamente “1 maggio”, il lavoro in somministrazione può essere considerato positivo per far uscire una persona rimasta senza impiego dal limbo della disoccupazione. Stante il comunicato pubblicato a margine del precedente Consiglio dei ministri, il Governo ha stabilito che il beneficio erogato in sostituzione del “reddito di cittadinanza” possa decadere qualora vi sia un rifiuto di una proposta di lavoro «a tempo pieno o parziale, non inferiore al 60 per cento dell’orario a tempo pieno e con una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi e che sia, alternativamente: 1) a tempo indeterminato, su tutto il territorio nazionale; 2) a tempo determinato, anche in somministrazione, se il luogo di lavoro non dista oltre 80 km dal domicilio».

Ma c’è un evidente cortocircuito linguistico perché secondo la ministra Calderone, intervistata da «Avvenire» domenica 7 maggio [2023], il decreto ha rappresentato «un’occasione per dare un segnale concreto del suo impegno a favore di lavoratori, famiglie, imprese e soprattutto giovani che rappresentano il futuro del nostro Paese e che vanno accompagnati nella realizzazione delle loro aspirazioni lavorative»1. E ancora riguardo le norme previste attorno al tema della precarietà: «Non abbiamo modificato la durata dei contratti a termine. Siamo intervenuti sulle causali per i rinnovi dopo i 12 mesi, rimandando alla contrattazione collettiva per la definizione delle casistiche dei rinnovi. Si tratta di una norma di chiarimento che non ha alcun riflesso sulla precarietà». E dire che quanto diramato dall’ufficio stampa di Palazzo Chigi appare essere scritto in un italiano che non lascia spazio alle interpretazioni.

Presidenzialismo o premierato ‘forte’?
Nonostante le difficoltà del paese reale, Meloni si domanda, manzonianamente, se Carneade fosse realmente esistito.

Il dubbio amletico meloniano sta tutto nella domanda (tra presidenzialismo o premierato), così come nella conseguente risposta che è stata consegnata agli organi di stampa a margine del giro di ‘consultazioni’ di martedì 9 maggio [2023].

Si tratta, in buona sostanza, di una interlocuzione che Meloni ha intrattenuto nella giornata di martedì per porre alle organizzazioni parlamentari tutte la questione di come affrontare il cambiamento costituzionale cui Fratelli d’Italia aspira da tempo, vale a dire la Repubblica Presidenziale.

La Presidente del Consiglio dimostra di aver già in mente il fine delle consultazioni: non lo dice espressamente, ma leggendo tra le righe nell’intervento in piazza ad Ancona di lunedì 8 maggio è ben chiaro: «Voglio fare una riforma ampiamente condivisa ma la faccio perché ho avuto il mandato dagli italiani e tengo fede a quel mandato: voglio dire basta ai governi costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo, ma legare chi governa al consenso popolare». Il mandato, in fondo, pensa, ce l’ha già: glielo hanno dato gli elettori, dunque se il presidenzialismo può essere un ostacolo, tanto vale puntare al premierato. D’altra parte è da circa tre decenni che la pubblicistica poi e la politica prima si è attestata nell’utilizzo del termine indicante il Presidente del consiglio dei ministri sostituendolo con quello di Premier. Un utilizzo improprio – evidentemente – tanto errato quanto ideologicamente foriero di un’idea di Paese totalmente diversa rispetto a quella costruita all’indomani del 1945. ‘Gutta cavat lapidem’, dicevano i latini ed ora è giunto il momento propizio per uscire definitivamente allo scoperto. O come si direbbe in ambito politico-aziendale: “i tempi sono maturi”.

Le reazioni alle consultazioni
E la fase sembra essere davvero matura: Italia Viva e Azione, nonostante le recenti ruggini, hanno mostrato assenso e condiscendenza al dialogo con la maggioranza per quel che riguarda una riforma della Costituzione in favore di quel che (già Matteo Renzi da Presidente del consiglio) può essere chiamato con l’espressione “sindaco d’Italia”. Un premierato forte con elezione diretta del Presidente. L’opzione del presidenzialismo, per la verità, nonostante fosse il cavallo di battaglia delle destre in campagna elettorale, è stato superato dall’opzione sopra citata. Da qui il rumore di fondo della Lega, per cui sarebbe un passo indietro troppo rilevante.

I numeri ci sarebbero, contando maggioranza e Italia Viva – Azione, tanto alla Camera, dove mancano un pugno di voti) quanto al Senato (dove le manciate di voti diventano due). Prima delle interlocuzioni di martedì, Mara Carfagna, deputata e presidente di Azione nel gruppo Azione-ItaliaViva-RenewEurope, aveva risposto preannunciando quanto poi Calenda avrebbe dichiarato a margine del colloquio con Meloni: il “no” a prescindere è «un atteggiamento sbagliato […] presidenzialismo è una parola generica, che va riempita di contenuti»2, aveva affermato la presidente al «Corriere della Sera». Nonostante Carfagna si sia mostrata in passato più volte a favore del presidenzialismo, oggi si collocherebbe più a favore del premierato: «Ho visto un’Italia dove se ci fosse stato il presidenzialismo forse al Quirinale sarebbe andato Grillo».

Giuseppe Conte, dal canto suo, ha rimarcato la necessità del dialogo per poter dare più forza al Presidente del consiglio, magari con una «commissione ad hoc» (nuova bicamerale dalemiana?) ma ribadendo la propria contrarietà all’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Certo è, come ha riportato il «la Repubblica» di mercoledì 10 maggio [2023], che Meloni pare abbia introiettato già il ruolo: «Ascolto ma vado avanti».

Uno spettro si aggira per Palazzo Chigi. Quello del (pur immaginario) Marchese Onofrio del Grillo.

1Francesco Riccardi, Calderone: «Siamo aperti al confronto ma il decreto è a favore dei lavoratori», 7 maggio 2023, «Avvenire».

2Virginia Piccolillo, «Sbagliato il no a priori. Premierato, lo spazio c’è ma ho visto i rischi del presidenzialismo», 7 maggio 2023, «Corriere della Sera». 

 

Pubblicato su Atlante Editoriale https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/italia-sempre-piu-povera/

«Fare il premier», qualsiasi cosa voglia dire

È ricominciata la campagna elettorale. Lo si vede dalle roboanti (vibranti cit. Giorgio Napolitano) dichiarazioni vuote e senza senso provenienti dai cinque stelle, dalla Lega, dal PD e da Berlusconi.

Luigi Di Maio, leader indiscusso, del Movimento 5 Stelle, nella giornata di ieri ha scritto un post sul «Blog delle Stelle» intitolato La volontà popolare sopra ogni cosa che termina così:

«Come abbiamo detto in campagna elettorale è finita l’epoca dei governi non votati da nessuno. Il premier deve essere espressione della volontà popolare. Il 17% degli italiani ha votato Salvini Premier, il 14 Tajani Premier, il 4 Meloni Premier. Oltre il 32% ha votato il MoVimento 5 Stelle e il sottoscritto come Premier. Non mi impunto per una questione personale, è una questione di credibilità della democrazia. È la volontà popolare quella che conta. Io farò di tutto affinché venga soddisfatta. Se qualche leader politico ha intenzione di tornare al passato creando governi istituzionali, tecnici, di scopo o peggio ancora dei perdenti, lo dica subito davanti al popolo italiano».

Su tutti i giornali, ovviamente, vengono riprese le parole di Di Maio: «sono stato il più votato come premier». Massimo Bordin nel corso della sua quotidiana rassegna stampa ha ironizzato: «Adesso mettiamoci d’accordo per raccordare la presunta volontà popolare di Di Maio con la Costituzione che non parla di elezione diretta del Presidente del Consiglio [cioè il premier ndr]».  Di Maio non è che si impunta a vanvera: i (s)cittadini l’hanno votato come candidato premier, così come gli elettori della Lega hanno votato Salvini Premier etc. Ora, in tempi di crisi e di informazione deviata, è bene riprendere ogni concetto e ripeterlo fino allo sfinimento: il “Premier”, in Italia, non esiste. I Governi, tecnicamente, non sono votati da nessuno, come al contrario afferma Di Maio. Nella Costituzione italiana, tanto per fare un esempio, non sta scritto da nessuna parte il termine premier, né tantomeno è mai stato normato che il candidato del primo partito debba obbligatoriamente essere designato dal Presidente della Repubblica come Presidente del Consiglio dei Ministri (non premier).  Craxi è stato per anni Presidente del Consiglio con lo PSI ben lontano dal 15%. 
Non è un problema di nomi ma di poteri: il Presidente non è eletto direttamente. Speriamo che qualcuno lo spieghi a Di Maio.